Non sono stati i video delle drag queen, non le foto dirompenti delle ballroom newyorchesi, non le proteste furibonde nei musei e nelle università, dove per anni ha trascinato nel fango il nome della famiglia Sackler per il loro coinvolgimento nella crisi americana degli oppioidi. È stata la difesa della Palestina la provocazione definitiva che ha chiuso l’establishment dell’arte contemporanea alla grande artista americana Nan Goldin (Washington, 1953).

L’Eccezione della Palestina per la libertà di parola

A dirlo è la stessa artista in conversazione con l’attivista Mahmoud Khalil sulla rivista Dazed. Nel corso della lunga intervista, i due concordano sull’esistenza di una “Eccezione della Palestina” secondo cui gli Stati Uniti storicamente tendono ad accettare la libertà di parola e di protesta su tutto tranne che la Palestina: nel 2015 l’organizzazione Palestine Legal aveva pubblicato un rapporto che documentava queste eccezioni nel mondo accademico e nelle istituzioni pubbliche (mantenendo da allora un elenco aggiornato). Con il degenerare della situazione sulla libertà di parola in America – l’ultimo esempio è la soppressione del programma di Jimmy Kimmel dopo un commento sull’omicidio dell’influencer alt right Charlie Kirk, che ha seguito la cancellazione del Late Show di Stephen Colbert – l’apparente tolleranza sta diventando però più dichiaratamente di parte: chi si allinea può parlare, e può dire persino che “tanto vale uccidere” le persone senzatetto come ha fatto Brian Kilmeade su Fox News, mentre chi non si allinea deve tacere.

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La manifestazione degli studenti di Harvard e Pain. Photo Dumedi Malaika Menakaya © PAINLa manifestazione degli studenti di Harvard e PAIN. Photo Dumedi Malaika Menakaya © PAINNan Goldin osteggiata per l’attivismo pro-Pal

Goldin, dal canto suo, ha spiegato che come leader di PAIN – Prescription Addiction Intervention Now – il gruppo di attivisti che ha spinto diversi musei a interrompere i legami con i Sackler – ha incontrato poche resistenze ed è riuscita a incidere sull’opinione pubblica ottenendo il sostegno dei media e del mondo accademico. Non si può dire lo stesso del suo attivismo filo-palestinese, che ha incontrato reazioni negative e ripercussioni penali, professionali e personali. “Personalmente, la mia carriera è crollata – il mio mercato è crollato da un giorno all’altro a causa del mio sostegno alla Palestina. Ho scoperto che molti dei ricchi collezionisti di New York sono sionisti”, ha detto Goldin. “Ho boicottato il New York Times e un collezionista ha chiamato la galleria e ha detto: ‘È la goccia che fa traboccare il vaso, le rimando indietro le opere’”. Anche l’anno scorso, all’inaugurazione della retrospettiva a lei dedicata alla Neue Nationalgalerie di Berlino, l’artista era stata aspramente criticata a livello istituzionale per aver espresso il proprio antisionismo.

Nan Goldin: una vita di attivismo

Di tutte le proteste, manifestazioni e prese di posizione che l’artista americana ha adottato nel corso di decenni di carriera, quindi, questo è stato l’affronto finale. Non gli anni con la sua “famiglia allargata” a Bowery, in seno alla sottocultura queer; non quelli come attivista di ACT UP – AIDS Coalition to Unleash Power, che l’hanno portata nel lontano 1989 a organizzare la prima vera mostra sull’AIDS a New York; non le azioni dimostrative di grande impatto contro Big Pharma, quella vera, organizzate nei musei di mezza America e finite al centro del documentario di Laura Poitras All the Beauty and the Bloodshed (premiato con il Leone d’oro a Venezia nel 2022). Non, insomma, la sua generale e incontenibile provocazione dello status quo, la denuncia e la rivendicazione di una società americana diversa. È stato parlare di Gaza la miccia, e inevitabilmente anche la lente d’ingrandimento sul ventre marcio del sistema dell’arte americano (e non solo): come spiegato – e dimostrato con un agghiacciante rapporto – dalla Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati Francesca Albanese, molti sono gli interessi economici in ballo nell’occupazione della Palestina. E il sistema dell’arte non fa eccezione.

Giulia Giaume

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