«Abbiamo fatto questo film con amore, rispetto e delicatezza verso Michela. Le abbiamo voluto bene ogni momento cercando i suoi passi nei nostri. E spero che da qualche parte anche lei ci voglia bene».
Alba Rohrwacher ha un sorriso che chiede permesso quando parla di Tre ciotole, del suo personaggio e di Murgia. 
Di tutti i ruoli che l’attrice fiorentina ha collezionato fino a qui, ovvero una settantina, questo «non è stato un viaggio facile. Ogni giorno accanto a Marta e al dolore che si trova ad affrontare». Eppure, Alba ha il potere di far sembrare facile un’impresa che non lo è affatto. Ed è prerogativa di pochi. Lei è tra quei pochi, da quando ha cominciato con Marco Bellocchio nel 2002, ha proseguito con i registi che sono maestri, ha conquistato una solida carriera internazionale e un premio dietro l’altro (Coppa Volpi, David di Donatello, Nastri d’Argento).

Che cosa ha provato quando le hanno proposto Tre ciotole?
«Toccare qualcosa di Michela mi intimoriva da un lato, ma dall’altro, come sono stata chiamata, ho sentito la responsabilità di accompagnare Marta in questo racconto».

L’aveva letto il libro?
«No. L’ho letto dopo la sceneggiatura. Ed è diventato una sorta di guida spirituale, riempiva le zone dell’invisibile del film».

Vi eravate mai incontrate lei e Murgia?
«Incrociai il suo sguardo anni fa a Parigi, a una sfilata di Dior. Ero in fila nel backstage. In quel mare di persone, nel magma caotico umano convulso, lei era ferma, appoggiata a una parete. Ho sentito un’energia. I miei occhi hanno superato il groviglio di invitati e hanno incrociato i suoi. Credo che ci siamo sorrise».

Marta, il suo personaggio, non è Michela.
«No no, non lo è. Ma Marta nasce da lei. È spiazzante, provocatoria, libera, autoironica, dotata di un’intelligenza che mi seduce, proprio come percepivo Michela. E il mondo rappresentato nel film è coerente con il suo».

Come si è preparata a entrare in quel mondo?
«Il lavoro con Isabel è stato fondamentale, intenso e anche gioioso. La sua idea di raccontare una storia di dolore riempiendola di luce mi ha guidata. Ho imparato a vivere nelle sue inquadrature non convenzionali. È stato altrettanto importante avere uno scambio con alcune persone vicine a Michela. Prima fra tutte, Chiara Valerio, che già conoscevo. Ci siamo dette poco, ma allo stesso tempo moltissimo. Mi ha regalato un frutto, un cedro, che veniva dal giardino di Michela. Quel frutto sta ancora con me, si è trasformato nei mesi. È davvero bello. L’ho appoggiato in una delle tre piccole ciotole che Isabel mi ha regalato quando ci siamo incontrate la prima volta e lì ha trovato il suo spazio al sicuro. Durante le riprese, ogni mattina, prima di uscire di casa, guardavo il cedro e pensavo: “Allora… io vado”».

Abito con motivo lamé, Louis Vuitton. Anelli, Tiffany & Co. Mule, N°21 di Alessandro Dell’Acqua.

Abito, dolcevita e collant, Valentino. Sandali, Valentino Garavani. Orecchini, Tiffany & Co.

Con quali altri membri della famiglia queer di Murgia ha avuto uno scambio?
«Lorenzo Terenzi (che ha sposato un mese prima di morire, ndr) ha collaborato al film, era emozionante saperlo con noi. E poi, ho incontrato brevemente la dottoressa che ha seguito Michela. Abbiamo girato nell’ospedale dove si è curata e in altri luoghi della sua Roma, a Trastevere dove viveva e nel bar Cambio in cui ha scritto Tre ciotole».