L’attore Kevin Spacey in una scena del film “1780” di Dustin Fairbanks – Lucca Film Festival
La Storia si rivela più autentica quando si concentra sulle piccole storie di chi, nel suo scorrere spesso drammatico e inesorabile, ne è protagonista o vittima. È questo il cuore del film 1780, del giovane regista americano Dustin Fairbanks, che ci immerge nella complessità umana e morale della Guerra d’Indipendenza americana. Una produzione indipendente, lontana dai colossal di Hollywood, presentata in anteprima mondiale sabato scorso, in apertura della ventunesima edizione del Lucca Film Festival, che prosegue fino al 28 settembre nella città toscana, sotto la direzione artistica di Nicola Borrelli.
A inaugurare il festival è stato Kevin Spacey, attore e produttore statunitense due volte Premio Oscar, che ha ricevuto il Premio alla Carriera sul palco del Cinema Astra e ha presentato il suo ultimo lavoro, accompagnato dal regista e dal produttore. 1780 è un thriller storico che narra la vicenda di un soldato ferito durante la guerra rivoluzionaria americana, costretto a rifugiarsi nella capanna di un trapper della Pennsylvania e di suo figlio. La trama si sviluppa intorno a scelte difficili, tra lealtà e sopravvivenza, in un mondo che si sgretola sotto il peso della guerra.
Per Spacey questo film segna una nuova partenza dopo anni turbolenti e controversie che lo avevano allontanato dal grande schermo, nonostante la sua assoluzione. Il ruolo, pur non essendo da protagonista, lascia un’impronta grazie a un’interpretazione insolita e magnetica di Kevin Spacey, che veste i panni di una guida inglese tanto eccentrica quanto inquietante. Sarà lui a condurre tre ufficiali dentro la capanna dove il soldato si nasconde, scatenando una guerriglia cruenta a colpi di archibugio, tra verità e menzogne, segreti e confessioni, destini intrecciati da tempo. «Quando mi è stato presentato il copione, ho pensato che si trattasse di una grande sfida, anche molto emozionante – ha spiegato l’attore a Lucca -. Sono stati girati molti film su questo periodo storico, ma che a mio avviso non hanno mai saputo coglierne a pieno il lato emotivo. Ho deciso quindi di cimentarmi in questa parte, cercando di raccontarla da un punto di vista diverso».
La Guerra d’Indipendenza americana tra il 1775 e il 1783 oppose le Tredici colonie nordamericane, diventate successivamente gli Stati Uniti d’America, alla loro madrepatria, il Regno di Gran Bretagna. Nel film i personaggi accennano anche alle battaglie e agli eventi storici più grandi di loro che si sono intrecciati nel loro passato, incidendo nella loro vita. In definitiva si tratta di una caccia all’uomo mozzafiato e oscura, con l’azione che si svolge tutto intorno alla baracca dove vivono i protagonisti.
«E’ stata un’esperienza fantastica – ha raccontato Spacey -. Abbiamo girato in poco tempo, con un budget modesto, ma con una storia ricca e complessa. Per il mio personaggio ho dovuto imparare una forma di inglese antico, con un accento insolito». Spacey ha anche voluto sottolineare il suo impegno per i giovani talenti emergenti: «Ho iniziato grazie a qualcuno che ha creduto in me, e oggi cerco di restituire questa opportunità».
Il film, che arriverà nelle sale americane a gennaio prima di una distribuzione internazionale, si propone come un ritratto intimo della Guerra d’Indipendenza, narrata attraverso le vicende di tre sopravvissuti: un soldato ferito, un cacciatore di pellicce e il suo giovane figlio. Ambientato nelle foreste selvagge della Pennsylvania, 1780 racconta molto più di una battaglia: è un’esplorazione delle tensioni morali, delle paure, delle speranze che si agitano tra gli uomini travolti dal conflitto. «Il problema della Storia è che la storia si ripete» ha aggiunto Spacey.
Honor (P.J. Marshall), il cacciatore silenzioso e segnato dal passato, e il figlio Miles (Kamilo Alonzo), trovano il soldato ribelle ferito dalle fucilate inglesi. Mentre Honor, disilluso e cinico, sembra pronto a lasciar morire quell’uomo, Miles incarna la voce della speranza e della compassione, spinto dallo spirito della madre scomparsa. Da qui si apre la narrazione, sospesa tra tensione e introspezione, animata dall’interpretazione di Spacey e del suo personaggio che, pur non essendo centrale, dovrà operare le sue scelte.
Il regista Fairbanks non si limita a raccontare la battaglia: scava nelle pieghe dell’anima dei protagonisti, attraverso dialoghi intensi che svelano il conflitto interiore di uomini divisi tra doveri, paure e memorie dolorose. Tra i tre soldati inglesi emergono figure complesse: dal giovane ingenuo al comandante spietato ma ligio alle regole etiche (»non uccidete il bambino – ordina ai suoi -, anche in guerra esiste la compassione») , fino all’ufficiale arrivista e crudele. La guerra, più che uno scontro fisico, è una ferita profonda che segna e divide.
Honor, nel suo doppio ruolo di padre e uomo ferito dalla vita, si confronta con un passato che credeva ormai sepolto, mentre il soldato ribelle custodisce luci e ombre. In questo microcosmo in cui si concentra la violenza del conflitto, l’unica risposta è negli occhi impauriti di un bambino che ha visto troppo dolore e sembra interrogarci silenziosamente.
Come spiega il regista Dustin Fairbanks «il mio obiettivo era quello di spogliare il film della sua grandiosità spesso associata alle storie di guerra e di mettere in luce la cruda umanità e la lotta morale che ogni personaggio affronta. Con la mia esperienza, dal debutto con Warning Shot a oggi, ho cercato di realizzare un racconto teso, centrato sui personaggi, che immerga lo spettatore nella realtà brutale del conflitto e nell’eroismo silenzioso che resiste contro ogni previsione».