Il forum parlamentare europeo per i diritti sessuali e riproduttivi ha pubblicato una mappatura aggiornata delle leggi, delle politiche e delle condizioni che in Europa garantiscono l’interruzione volontaria di gravidanza. Rilevate tendenze negative nel nostro paese (che scivola al 31esimo posto su 49), Bielorussia, Georgia, Russia, Malta e Slovacchia, tra nuove restrizioni e procedure mediche non necessarie

Negli ultimi cinque anni l’Italia ha fatto passi indietro nella tutela dell’accesso all’aborto. Il forum parlamentare europeo per i diritti sessuali e riproduttivi (EPF) ha pubblicato una mappatura aggiornata delle leggi, delle politiche e delle condizioni che in Europa garantiscono l’interruzione volontaria di gravidanza (ivg) rilevando tendenze negative in Italia, Bielorussia, Georgia, Russia, Malta e Slovacchia. In questi paesi nuove restrizioni, tra cui procedure mediche non necessarie e disinformazione guidata dallo stato, stanno creando ostacoli all’accesso all’aborto.

Nel 2021 l’Italia si collocava sedicesima nella classifica generale dell’Atlante europeo, oggi è scivolata al trentunesimo posto su 49 paesi considerati. Nel frattempo la Francia ha adottato il diritto all’ivg nella propria Costituzione ed esteso i limiti di gestazione entro cui è possibile ricorrere all’interruzione di gravidanza, i Paesi Bassi hanno abolito i periodi di attesa obbligatori, la Danimarca ha aumentato a 18 settimane il tempo per ricorrere all’ivg su richiesta e la Lituania ha legalizzato l’aborto terapeutico.

«Europa a due velocità»

L’Atlante europeo realizzato dall’EPF esamina i paesi in base a quattro criteri principali: status giuridico, accesso, assistenza clinica, fornitura dei servizi dedicati all’interruzione di gravidanza e informazione sul tema. Secondi l’analisi del 2025, Svezia, Francia e Paesi Bassi offrono le garanzie più solide, con tutele giuridiche che depenalizzano completamente l’aborto, ampia disponibilità di servizi, copertura sanitaria nazionale e lotta alla disinformazione.

Al contrario, Malta e Polonia sono in fondo alla classifica, con l’aborto in gran parte criminalizzato tramite pene severe, l’accesso e l’assistenza clinica fortemente limitati o non disponibili e la mancanza di informazioni da parte delle istituzioni.

«Possiamo dire che l’Europa sta procedendo a due velocità – spiega a Domani Marina Davidashvili, responsabile delle politiche e della ricerca dell’EPF – I paesi dell’Europa occidentale e dell’Unione europea stanno modernizzando le loro leggi sull’aborto, mentre i paesi dell’Europa orientale stanno limitando l’accesso».

Se la Georgia ha introdotto l’obbligo di ecografia prima dell’aborto e in Russia i farmaci abortivi sono stati sottoposti a controlli quantitativi nel 2024, sempre più cliniche private in Europa smettono di offrire servizi di ivg e 20 paesi hanno adottato politiche per limitare l’accesso ai servizi e alle informazioni sul tema.

Il caso Italia

L’Italia è tra i paesi che continuano a imporre barriere di accesso, come periodi di attesa non conformi alle linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità e l’obbligo di consulenze per ricevere l’autorizzazione a richiedere l’ivg.

Già nel 2021, EPF segnalava come l’Italia presentasse diversi ostacoli amministrativi, limitando per esempio l’accesso all’ivg alle persone non residenti nel paese, e una larga diffusione dell’obiezione di coscienza tra il personale sanitario. Nello stesso anno, il Comitato della Carta sociale europea ha riconosciuto l’esistenza di disparità nell’accesso al servizio di interruzione di gravidanza in Italia. Per il Comitato, il governo italiano non aveva dimostrato che il personale medico specializzato nel fornire il servizio fosse sufficiente e che i medici non obiettori di coscienza non fossero discriminati rispetto agli obiettori per le condizioni di lavoro e le prospettive di carriera.

«L’aborto è legale in Italia dal 1978, ma l’accesso è tutt’altro che garantito. L’ostacolo maggiore è l’alto tasso di obiezione di coscienza: oltre il 60% dei ginecologi si rifiuta di praticare aborti e in alcune regioni del sud la percentuale supera l’80%. Ciò costringe molte donne a lottare per trovare un medico disposto a praticare l’intervento, ad affrontare lunghe attese o a viaggiare in altre regioni, a volte anche all’estero», dice Marina Davidashvili.

La burocrazia, lo stigma sociale e l’introduzione di incentivi a sostegno delle associazioni “pro-vita” in varie regioni italiane aggiungono ulteriori difficoltà. «Recentemente, il governo Meloni ha suscitato allarme consentendo agli attivisti anti-aborto di entrare nei consultori familiari, con il pretesto di “sostenere la maternità”. Riteniamo che ciò possa intimidire le donne e ridurre ulteriormente l’accesso, mentre il governo insiste nel sostenere che il quadro giuridico rimane invariato».

Sulla base delle raccomandazioni mosse da EPF alla luce della nuova mappatura europea e delle linee guida dell’Oms, l’Italia dovrebbe rafforzare l’accesso all’aborto in modo che il diritto sia garantito nella pratica, non solo sulla carta.

«Barriere dannose come i periodi di attesa obbligatori dovrebbero essere eliminate e l’accesso all’aborto medico, anche attraverso la telemedicina e l’uso domestico, dovrebbe essere ampliato – aggiunge Davidashvili – I gruppi di attivisti non sanitari non dovrebbero inoltre essere ammessi all’interno dei consultori: la consulenza deve rimanere neutrale, basata su prove scientifiche e incentrata sulle scelte delle donne».

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