di
Fabrizio Zupo
Padovano, 45 anni, primo head coach tra i maestri inglesi con gli Sharks: «Voglio vincere il premio che non sono riuscito a conquistare da giocatore»
«Voglio vincere quella Premiership da allenatore che non mi è riuscita da giocatore». È diretto Marco Bortolami: quella volta, era il 2006, da capitano del Gloucester vide la finale a Twickenham in panchina per un infortunio al ginocchio. E giovedì sera a Sale nell’anticipo di Premiership (ora Prem) debutterà da capo allenatore degli Sharks contro il Gloucester: «Uno scherzo del destino», dice. Se nel calcio inglese un allenatore italiano è come una griffe, nel rugby è un fatto storico. Bortolami, 45 anni, laurea in ingegneria gestionale, 112 cap azzurri, sempre capitano (Petrarca, Narbonne, Gloucester, Aironi e Zebre), dopo nove anni alla Benetton, che in quattro da capo allenatore ha portato una volta ai playoff di Urc, due in semifinale di Challenge e in un quarto di Champions, è al via della nuova sfida. Guida un club per due volte in semifinale e una in finale dal 2022, in squadra ci sono ben dodici nazionali.
Bortolami, l’Inghilterra «accetta» un coach italiano. È eccezionale?
«Non era mai successo, eccezionale non lo so. Vediamo se in due anni arriviamo a vincere il campionato».
Perché due anni?
«Quest’anno è di costruzione, 2026 e 2027 sono quelli in cui il club mette a target la Prem e la Champions. Questo per la strategia relativa al Salary Cap, a come si spalmano i contratti: in un ciclo di quattro anni, i due centrali sono quelli in cui si può spendere di più ed avere più giocatori di qualità».
Fantascienza per noi?
«Sì. Se tu spendi tutto il Salary cap ogni volta, la competizione è talmente serrata che rischi di arrivare ai playoff ma poi c’è sempre qualcuno che fa meglio».
Alex Sanderson è il director of rugby che l’ha scelta. Come è andata?
«Dopo la separazione con Treviso, Alex era interessato. Gli ho risposto che non avevo fretta. Avevo pure una proposta da assistente in una Nazionale del Sei Nazioni. Dopo tre giorni mi ha richiamato, aveva deciso».
Cosa condivide con Sanderson?
«La gestione generale del gruppo: è una questione strategica in ogni sport. Voleva una persona che lo sfidasse, è un misurarsi».
Come sono andati questi primi mesi?
«Gestisco 62 giocatori, 35 seniores e 28 giovani. A Treviso erano 68 ma con più seniores. A Treviso eravamo più avanti nella metodologia, qui si lavora come dieci anni fa. Ora facciamo più cose in meno tempo, è già una rivoluzione. A Treviso ho potuto esplorare, a Sale sono regimentati. Lo sport deve avere un approccio olistico, essere integrato e sinergico».
Guardiola nel calcio e Velasco nel volley vincono con la gestione del gruppo. In sintesi che cos’è?
«Più la squadra è in difficoltà più puoi spingerti, più ha successo più devi lavorare di fino. Io sono nella seconda situazione, la strategia di Sale stava già funzionando ma non nelle due partite finali. Luis Enrique ha avuto carta bianca perché il Psg non vinceva nulla. Ancelotti a Madrid no. Il coach è un camaleonte».
La cosa nuova che porta in Inghilterra?
«Essere flessibili durante il match. E non è una qualità inglese, devo dargli strumenti. Gli inglesi sono spiazzati se tutto non va come previsto. Mentre ora devono interpretare il momento».
Ci vuole un italiano per insegnarlo?
«Un italiano con mentalità inglese. A Treviso passavo per rigido, qui sono addirittura incementati… Però i giocatori in allenamento danno il massimo. I leader sono spietati, li devo tranquillizzare».
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24 settembre 2025
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