Il professor Olivier Roy è uno dei maggiori islamologi francesi contemporanei. Professore all’Istituto Universitario Europeo di Firenze, ha diretto il programma «Mediterraneo» presso il CNRS e collaborato a lungo con il Ministero degli Esteri francese. Tra i suoi lavori più noti L’échec de l’islam politique e La laïcité face à l’Islam. Vincitore del Grand Prix de la francophonie dell’Académie française e consulente di istituzioni accademiche e diplomatiche in Europa e in Medio Oriente, Roy è da anni uno degli studiosi più lucidi del rapporto tra Islam, politica e società occidentali. Il Riformista ha scelto di rivolgersi a lui per analizzare con rigore critico la proposta di Emmanuel Macron di riconoscere uno Stato palestinese.
Professor Roy, quando il presidente Macron parla di riconoscere uno «Stato palestinese», di cosa parla esattamente? La Palestina è oggi divisa tra due entità antagoniste: un’Autorità Palestinese indebolita a Ramallah e un potere islamista a Gaza che, secondo alcuni, avrebbe preso militarmente il controllo della Cisgiordania. Possiamo davvero parlare di uno Stato in queste condizioni?
«Non si tratta di riconoscere uno Stato che esista de facto, perché semplicemente non esiste. L’unica istituzione che potrebbe legittimamente rappresentare uno Stato palestinese è l’Autorità Nazionale Palestinese di Mahmud Abbas, che è dunque la grande beneficiaria dell’annuncio del presidente francese. Inoltre è inesatto dire che Hamas abbia preso il controllo militare della Cisgiordania: questo controllo è esercitato essenzialmente dall’esercito israeliano e dai coloni. Certo, ci sono militanti armati di Hamas in Cisgiordania, ma politicamente e militarmente rappresentano poco. In realtà, le divisioni tra palestinesi — tra Hamas e ANP — sono state mantenute, fin dagli Accordi di Oslo, dai governi israeliani, che non hanno mai voluto una reale unità politica palestinese. I palestinesi, da parte loro, non sono riusciti a darsi una rappresentanza politica credibile. L’annuncio di Macron è soprattutto simbolico: mira a spingere Israele a tornare al principio della soluzione dei due Stati, che il governo attuale ha abbandonato».
Hamas, da Gaza, continua a negare il diritto all’esistenza di Israele, rivendicando un islam politico radicale. Riconoscere oggi uno Stato palestinese non esporrebbe il nascente Stato all’influenza di un attore che nega il diritto internazionale e i valori democratici che la Francia dovrebbe difendere?
«Al contrario, il riconoscimento di uno Stato palestinese mira a marginalizzare Hamas e a favorirne la smilitarizzazione. Il governo israeliano, con la sua operazione militare a Gaza, non è riuscito a raggiungere l’obiettivo dichiarato: l’eradicazione di Hamas. Per evitare un pericoloso faccia a faccia esclusivo tra Israele e Hamas, è necessario far emergere una rappresentanza politica palestinese non legata al movimento islamista. È, a mio avviso, un’ipotesi utopica, ma ha una sua logica».
Lei ha studiato a lungo il fallimento dell’islam politico. Non è paradossale che la Francia, in nome della pace, rischi oggi di rafforzare movimenti politico-religiosi che strumentalizzano la causa palestinese per fini ideologici?
«Hamas è certo un movimento islamista, ma il suo programma è un nazionalismo radicale simile a quello dell’estrema sinistra palestinese degli anni Settanta e Ottanta. Ed è proprio contro quell’estrema sinistra che il governo israeliano ha lasciato spazio a Hamas al momento della sua fondazione. Hamas non ha mai proclamato Gaza “emirato islamico” e ha combattuto l’ISIS nel campo di Yarmuk in Siria. Non è l’islamismo a strumentalizzare la causa palestinese: né al-Qaida né l’ISIS hanno mai sostenuto i palestinesi. È semmai il contrario: è il nazionalismo palestinese a strumentalizzare l’islam. Il sostegno internazionale a Gaza arriva principalmente dall’estrema sinistra occidentale, non dagli ambienti religiosi musulmani tradizionali».
Secondo lei, il riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese — nelle attuali condizioni — rafforza o indebolisce le possibilità di una pace reale con Israele?
«Si tratta di una dichiarazione simbolica. Macron si aspetta che produca effetti reali: crede nella performatività della parola, o almeno della sua parola. Ma non cambierà molto, perché oggi non esistono vere prospettive di pace. Il governo israeliano attuale non nasconde l’intenzione di ridurre — o addirittura espellere — la popolazione palestinese sia dalla Cisgiordania che da Gaza. E sa di avere una “finestra di opportunità”: l’asse della resistenza (Hezbollah, Siria, Iran) è in gran parte annientato, Trump ha abbracciato la visione dei cristiani evangelici pro-Israele, i regimi arabi conservatori sono firmatari o spettatori silenziosi degli Accordi di Abramo, Russia e Cina restano ai margini, e in Occidente il sostegno popolare a Gaza è marginale e spesso criminalizzato — come negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Germania. È vero, cresce in Europa una critica umanitaria al trattamento dei civili a Gaza. Ma si tratta di protesta morale, che non si traduce in una condanna politica della linea israeliana post-Oslo. Macron vuole probabilmente offrire uno sbocco politico a questa ondata umanitaria, rilanciando la soluzione dei due Stati. Ma, a mio avviso, non porterà a nulla».
Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
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Aldo Torchiaro