Donald Trump

Donald Trump – ANSA

Un posto al sole. Dei Nobel per la Pace. Magari al fianco di Nelson Mandela, del Dalai Lama o di Martin Luther King. È l’ambizione massima di Donald Trump. Di più, quasi un’ossessione, che però cozza spesso con la realtà e, altrettanto frequentemente, frana dinanzi alla affermazioni roboanti a cui il presidente a stelle e strisce ci ha abituati e alla facilità con cui l’inquilino della Casa Bianca si attribuisce questo o quel successo diplomatico.

Ieri all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il capo della Casa Bianca si è appuntato al petto la medaglia di aver posto fine a “sette guerre” (erano sei fino al mese scorso… ) in sette mese di presidenza. Un modo per “nascondere” il mancato obiettivo di fermare le armi in Ucraina, traguardo che prima di essere eletto aveva garantito di raggiungere nel giro di 24 ore?

Ma i successi sbandierati da Trump sembrano scollati dalla realtà. Il presidente ha davvero chiuso sette guerre come pretende, vale a dire i conflitti tra Israele e Iran, Repubblica Democratica del Congo e Ruanda, Cambogia e Thailandia, India e Pakistan, Serbia e Kosovo, Egitto ed Etiopia e Armenia e Azerbaigian? In realtà Trump ha “supervisionato accordi temporanei o parziali in sette conflitti”, ma nel computo vanno inseriti anche quelli raggiunti durante il suo primo mandato.

Tra questi lo scontro tra Etiopia ed Egitto, da anni impegnati in un braccio di ferro sulla diga etiope Grand Ethiopian Renaissance Dam sul Nilo, che secondo il Cairo minacciare il suo approvvigionamento idrico.

L’altra crisi “risolta” durante il primo mandato di Trump è quella tra Serbia e Kosovo: l’accordo “di normalizzazione economica” risale al 2020. Ma le tensioni tra i due Paesi sono tutt’altro che risolte.

Mentre sembra tenere la tregua tra Cambogia e Thailandia, grazie anche all’occhialuta vigilanza della Cina. La narrazione trumpiana scricchiola anche sull’accordo raggiunto tra India e Pakistan, dopo le giornate infuocate dello scorso maggio in occasione dell’ennesima crisi per il Kashmir: New Delhi nega – come ricorda il Guardian – che Trump abbia avuto alcun ruolo nel raggiungimento del cessate il fuoco. Politico invita, poi, a un distinguo fondamentale: la fine degli scontri armati non necessariamente coincide con una reale pacificazione che “spenga”, in maniera definitiva, la possibilità e i motivi di una guerra.

È il caso del conflitto tra Israele e Iran che appare più congelato che risolto, peraltro solo dopo l’intervento militare a stelle e strisce. Vacilla anche la “pace” raggiunta tra il Ruanda e la Repubblica Democratica del Congo, minata da troppe incognite. Ultima, in ordine di tempo: la decisione dei ribelli del M23, che hanno in mano la parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, di abbandonare i colloqui di pace con il governo. Il tycoon ha comunque strappato, in questa occasione, un accordo sulle terre rare, facendo uno sgambetto alla Cina e non obliando mai la sua vocazione agli affari.

Infine, c’è sul piatto la pacificazione tra Armenia e Azerbaigian: all’inizio di agosto i leader dei due Paesi hanno firmato un accordo di pace. La location? La Casa Bianca. Un successo per Trump anche dal punto di vista economico: come riportato dalla Reuters, l’Armenia prevede di concedere agli Stati Uniti diritti esclusivi di sviluppo speciale per un periodo prolungato sul corridoio di transito, la “Trump Route for International Peace and Prosperity”. Resta il “buco nero” dell’Ucraina. Per Trump “il pacificatore” la partita più difficile.