di Angela Frenda

Franco-vietnamita, 29 anni, il suo romanzo d’esordio «Anime erranti» è diventato un caso editoriale. Grazie anche a piatti che fanno da ponte con un passato oramai perduto per sempre

Ci sono libri, e autori, che entrano quasi naturalmente nel cuore del lettore. Con «Anime erranti» (Einaudi) il romanzo d’esordio di Cecile Pin, 29enne franco-vietnamita cresciuta tra Parigi e New York, è successo proprio questo. E da subito è stato chiaro che l’autrice ci avrebbe portati in un mondo profumato e sensuale, doloroso e arrabbiato, silenzioso e confuso. Un mondo dove il vero protagonista sarebbe stato sempre e solo lui: il cibo. Raccontandoci la diaspora vietnamita in un modo unico. 

Sin dall’inizio, in quella che viene descritta come «l’ultima sera» ed è ambientata a Vung Tham, in Vietnam; l’anno è il 1978, tre anni dopo la caduta di Saigon. Siamo in una casa dove si sta preparando la cena. E il piatto preferito della sorella maggiore, Anh: il maiale brasato caramellato con uova. Dall’esterno potrebbe essere una sera qualsiasi, una casa qualsiasi. Ma stiamo assistendo a qualcosa di diverso. La mattina dopo i tre fratelli maggiori devono lasciare il Vietnam su una barca, sperando di trovare rifugio negli Stati Uniti. Poco dopo, il resto della famiglia – la madre, il padre e i figli più piccoli – li seguirà. Ma le cose non andranno secondo i piani. La frase d’apertura del romanzo è profetica: «Ci sono gli addii e poi la pesca dei corpi». Anh e i suoi due fratelli raggiungono la salvezza; i genitori e il resto dei fratelli muoiono durante la traversata.



















































Resteremo con i sopravvissuti e li seguiremo mentre si stabiliscono non negli Stati Uniti, ma nella Gran Bretagna della Thatcher, costretti a ricostruirsi una nuova vita partendo da zero e a dover affrontare il dolore. Mentre le anime dei familiari perduti continueranno a osservare e vegliare sui vivi. Il profumo dell’incenso su un altare domestico, o di una cena cucinata da Anh, agisce come un invito. I ricordi di casa – di prima – abbondano, e i fantasmi di famiglia, invisibili, tornano nella terra dei vivi per unirsi ai loro parenti per cena. 

Il cibo, dunque, è più di un semplice sostentamento: le ricette fungono da ponti verso tutto ciò che i fratelli hanno perso. In un campo profughi a Sopley, nell’Hampshire, delimitato da recinzioni di filo spinato, l’odore dei piatti vietnamiti porta con sé un senso di appartenenza mentre fuori, i fratelli e gli altri residenti del campo incontrano spesso incomprensioni e ostilità. Ma anche la pace quotidiana dei pasti condivisi e dei silenzi amichevoli. E nomi di ricette che evocano luoghi e persone: Pho, i Banh mi (panini vietnamiti), Goi cuon (involtini primavera freschi), Nem ran o Cha gio (involtini primavera fritti) e iBun cha. Nulla, nessun pasto, è messo lì per caso. Così la cioccolata calda sorseggiata nella baracca del campo profughi pensando che fosse la cosa giusta da fare per assomigliare ai bambini inglesi. E i pasti preparati in attesa di un futuro da Anh: verdure, carote, taccole e melanzane unite a un riso spesso colloso perché era quello delle razioni. I noodles fatti saltare in una padella che sfrigolava a ogni aggiunta di olio. O la delusione nel supermercato per non trovare il longan, il loro frutto preferito. «Prendi frutta inglese», avverte il commesso. Anh acquisterà un ananas consapevole della distanza oramai incolmabile tra la sua vita di oggi e quella di prima. 

Un libro che il «Times» ha definito «un audace esordio che apre nuove strade nel raccontare la storia dei “boat people” vietnamiti sbarcati in Gran Bretagna, un argomento finora trascurato nella narrativa». Perché sarà proprio la fatica ad integrarsi nella Londra orientale degli anni ‘80, idealizzando l’America che non hanno mai avuto la possibilità di sperimentare, a dettare i tempi del romanzo: «In America ce n’erano di più, una vera comunità di vietnamiti e asiatici invece di pochi gruppi sparsi per Londra». Anh, la più grande, assume il ruolo di badante, rinunciando alla sua istruzione per lavorare in una fabbrica di abbigliamento. Minh fatica a trovare lavoro e si dà alla microcriminalità; è il più giovane e quindi il più malleabile socialmente, Thanh, a trovare più facile adattamento.

Il libro è in parte ispirato alla storia della famiglia materna di Pin, composta da boat people vietnamiti che si stabilirono però in Francia. La seconda metà del libro è ambientata nel sud-est di Londra, perché è lì che Pin ha vissuto negli ultimi anni. «Credo di aver sempre saputo che avrei finito per scrivere in qualche modo della storia della mia famiglia, ma all’inizio ero più interessata a scrivere saggi e articoli di cronaca. A scuola mi piaceva la scrittura creativa, ma non era qualcosa che avrei mai pensato di poter fare per vivere: mi mancava la sicurezza. Ma lavorando nell’editoria (prima lavoravo come assistente editoriale) e leggendo molto, il processo di scrittura di narrativa è diventato meno scoraggiante per me». Questo romanzo d’esordio ha già vinto il London Writers Award 2021 e il Prix Fragonard de littérature étrangère 2024.

Cecile Pin è stata invece definita la nuova Joan Didion della diaspora asiatica. E come Didion fa entrare infatti il dolore nelle pagine e lo mescola sapientemente alla quotidianità che diventa evocativa. Rendendo anche la cucina palcoscenico del teatro della vita, tra pentole e padelle. «Ci raccontiamo storie per vivere, ci raccontiamo storie per guarire», scrive Pin. Una frase bellissima che evoca una verità: ciascuno di noi ha, sempre, un trauma dal quale guarire.






















































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24 settembre 2025