Bisogna sorvolarle in una giornata limpida, le isole dell’Egeo, per misurarne compiutamente la superficie di scintillante bellezza. Formazioni di roccia più o meno grandi affiorano dalle acque turchesi. Ripenso al mito di Egeo, che a questo mare ha dato il suo nome. Forse – mi dico – è solo dall’estremo sacrificio di sé che può scaturire tanta meraviglia. 

Ritorno da Rodi, l’isola della Rosa, a poche miglia nautiche dalla Turchia. La storia l’ha collocata al crocevia delle rotte tra Oriente e Occidente, alla mercé di eserciti crociati, ordini monastici e visir. Il profilo dell’isola appare, soprattutto a chi ha il privilegio di scorgerlo nel crepuscolo di giugno, come un animale marino addormentato: una balena affiorata in superficie, di palmare e nuda grandezza. Lawrence Durrell, nella sua ricca (e non tradotta in italiano) raccolta di saggi, le dedica pagine appassionate, in cui mi sembra rivivere l’eco dell’amicizia con Odisseas Elitis, uno dei grandi della poesia novecentesca. I due si erano conosciuti in una località non lontana da Atene negli anni Trenta.

Elitis vi svolge pigramente il servizio militare e intanto anima con altri giovani il dibattito letterario che in quegli anni ferve all’ombra del Partenone. Compaiono nuove riviste di critica letteraria, si organizzano serate a tema che finiscono inevitabilmente in fragorose bevute e poetiche declamazioni. Nel firmamento letterario greco di quegli anni si vive con entusiasmo l’ondata di novità che arriva da occidente, soprattutto da Parigi. La cometa del Surrealismo, scagliata con vigore da Breton ed Éluard, incendia il dibattito letterario anche in una Grecia che, in fatto di lettere, si era sempre mostrata invero poco permeabile alle novità. Le nuove proposte e le fiammeggianti idee del Surrealismo vengono accolte ad Atene da Andrea Embirikos. Nato in Romania da famiglia greca possidente e trasferitosi in Grecia dopo aver studiato e vissuto a Londra e a Parigi, Embirikos è figura che provoca un vero e proprio sisma nelle lettere greche. Primo psicanalista del suo paese, poeta e fotografo, egli imprime alla poesia e alla prosa un radicale mutamento di rotta. Diventa il trait d’union tra le nuove istanze francesi e la famosa Generazione del ’30, composta in massima parte da poeti e scrittori decisi a sprovincializzare la letteratura greca. Tra loro c’è anche Odisseas Elitis, con il quale da subito si instaura un rapporto di amicizia sincero e fecondo, che durerà sino alla morte di Andreas nel 1975. Testimonianza concreta di questo profondo e generoso colloquio tra i due è un libello scritto da Elitis proprio all’indomani della dipartita del suo amico, come spinto dall’urgenza di ripercorrere le tappe di un cammino assolutamente fuori dal comune. Più che cammino, una vera e propria educazione: umana ancor prima che letteraria. Il titolo del libro è, parafrasandone un altro di Kazantzakis, Rapporto ad Andrea Embirikos. Oggi introvabile in italiano, è stato tradotto da Mario Vitti e pubblicato nell’antologia del poeta greco uscita per i tipi di Utet nel 1982.

Andreas Embirikos (1901-1975)

Certo, alcuni aspetti della biografia legano indissolubilmente i due amici: l’esperienza parigina; una fascinazione per le avanguardie e il loro senso di rottura con il passato; l’amore sacro e inviolato per la Grecia, coltivato anche nel tumulto della storia e in altre coordinate geografiche. Anche nell’espressione letteraria si ravvisano punti di contatto: nella comune scelta del dettato poetico, in una prosa ibridata da scintille liriche, nell’uso di un lessico ricco e variegato capace di generare sorprendenti cortocircuiti semantici. Ma è soprattutto nella statura poetica e umana, e in un certo modo di porsi davanti alla vita creativa, che Embirikos ed Elitis sembrano aver raggiunto un’intesa invidiabile. Per prima cosa, scrive Elitis all’amico, bisogna essere fedeli a sé stessi e alla propria vocazione, resistendo alle continue tentazioni e violenze dell’innominabile attuale.

“Subordiniamo tutto ad un identità che ci è stata concessa senza essere stata chiesta; e i nostri sforzi per adeguarci ai suoi connotati finisce per essere un’impostura per la quale paghiamo lo scotto vita natural durante, senza mai trovarci creditori rispetto alla realtà”

Coltivando la poesia laddove essa chieda voce e spazio, voglio dire diventando il proprio destino, allora si può combaciare, o almeno provarci, con la parte migliore di sé. Nasce il poeta: colui che porta un’alba della quale la maggior parte della gente neanche vuole immaginare la luce.

“Quando i maghi interrogano gli astri, questi rispondono per approssimazione. Il poeta preferisce la precisione, consapevole che se pure non coglie in pieno nel segno, il tutto non smette perciò di esistere.”

Non si tratta di mitizzare la figura del poeta, o di tesserne uno stucchevole elogio romantico. Anzi, l’esatto contrario: riportare il tutto alle sue proporzioni originarie, prima che il poeta diventasse quel mitico volatile immortalato da Baudelaire – affascinante in cielo, goffo e deriso sulla terra. 

“Sono trenta secoli e più che l’uomo si affanna a mettere una parola accanto all’altra in modo da costringere il suo pensiero a girare in un modo nuovo, mai provato prima di allora. Ecco che ora, per la prima volta, questa sua funzione è stata interrotta. Siamo completamente pronti per l’imbecillità.”

Cosa lega Elitis ed Embirikos al corpo nudo della poesia? Quale disposizione di fronte alla vita si trasfigura poi in versi greci? Esattamente questa: 

“la forza di germogliare, di fiorire, di dare il frutto delle proprie viscere”. 

Voglio dire: prendere l’Egeo, custodirlo con sé nel taschino del passaporto, tenerlo ben saldo durante gli scali aerei e marittimi e nei rovesci della storia. Interrogarlo sempre davanti ai fondi di caffè, di fronte alle linee dei palmi, all’ombra dei lampioni sul lungofiume, nello sguardo di una donna dopo l’amore. Vivere la propria ispirazione, sentirla palpitare nel proprio corpo come un secondo cuore. Proteggerla, darle spazio e tempo, accompagnarla per mano negli attraversamenti pedonali della vita, fedele compagna nella vastità del mondo.

Cosa ti hanno insegnato i giorni e le serate ventose di Rodi, accompagnati da una copia sgualcita del Rapporto ad Andrea Embirikos? In lampi di iliadica nostalgia, tra lo sciabordio delle onde e l’essenza del blu, ripercorrere i sentieri della propria vita a ritroso – inseguendo quella riva che un tempo prometteva di proteggerci dalle apocalissi della maturità. Comprendere che siamo figure di piena luce. Che la follia del melograno, il raggio lunare sul pontile e la caviglia morsa dal sole ci riportano a una condizione primigenia di pura ed implacabile essenzialità. Il che non vuol dire escludere il dolore annidato nella ruggine dei giorni, ma non prenderlo troppo sul serio, non dargli troppa confidenza; trattarlo come un piccolo neo, un’impertinenza da scacciare. Affidare ad altro la nostra fede, la santa perseveranza e la dolce follia: alla curva marmorea di un’Afrodite, alla docile costanza del grano e agli occhi di una circassa che sembrano dardeggiare altrove, almeno un metro sopra la testa delle persone. Professare un amore incrollabile per le isole, atolli di solitudine, culle di poesia. 

Odysseas Elytīs (1911-1996), Nobel per la letteratura nel 1979

A bordo di un aereo affollato di vacanzieri più o meno chiassosi, il comandante comunica che stiamo sorvolando Paros. Ripenso allora al memorabile verso di Archiloco:

“Eccomi, sono io”.

Qui si registra la prima manifestazione dell’ego in letteratura: è su quest’isola dell’Egeo che nasce la poesia lirica. Non lontano da qui, da alte scogliere battute dal Meltemi si sporgeva Saffo, cantando l’amore con accenti di limpida e salmastra voluttà. Lungo questa linea di isole procede il miracolo.Forse lo stesso che avvertì Picasso davanti a un meraviglioso esempio di arte cicladica. La verità è che qui, nella terra degli Dèi, risuona ancora la loro lingua. L’hanno colta Foscolo e Chénier. Soprattutto, l’hanno compresa molti inglesi: Byron vi muore avvolto nel suo mito. Fermor e Durrell la eleggono patria spirituale e imparano il greco. Brooke e Chatwin riposano su dolci colline che fronteggiano il mare, tra muri in pietra e ulivi. D’altronde, i greci ci hanno insegnato che, dopo il trapasso, l’anima può trasformarsi in una costellazione visibile a occhio nudo o in un fiore bagnato di rugiada.

Lorenzo Giacinto

*In copertina: schizzi di John Singer Sargent, 1918 ca.