di
Chiara Maffioletti
L’attore di cinema, televisione e teatro si racconta a tutto tondo
Per Alessandro Preziosi, «la grande fatica delle scelte è il non dormirci prima di prenderle». Poi però, una volta fatto il salto, non ha più senso rimuginarci su. Lui, ad esempio, nonostante una laurea in Giurisprudenza con il massimo dei voti, non si è più chiesto come sarebbe stata la sua vita da avvocato. «Mai fatto. L’arte mi ha insegnato ad amare di più la vita e non posso dire il contrario». Preziosi è uno dei protagonisti della tre giorni di incontri letterari, letture e musica del Premio Letterario Corrado Alvaro-Libero Bigiaretti, in programma a Vallerano, che verrà assegnato ad Antonio Franchini per il romanzo Il fuoco che ti porti dentro («uno dei libri più belli che ho letto negli ultimi anni»). Quest’anno il tema della rassegna è proprio la scelta.
Lei quando ha deciso, quindi, di fare l’attore?
«È stata una scelta partita dall’incoscienza. Una scelta che profetizzava inconsapevolmente qualcosa, un grande sesto senso che mi ha spinto ad essere guidato verso qualcosa più grande. Le scelte determinano l’unità di misura di quello che sarai: io a un certo punto ho deciso di trasferirmi a Milano per studiare all’Accademia dei Filodrammatici e così è iniziato tutto».
Sono passati 25 anni, il bilancio è positivo?
«Mi faccio delle domande sul mestiere dell’attore ogni volta che vado al cinema. Guardo tanti film e lì mi chiedo: ma a te i film piace vederli o farli?».
La risposta?
«Vederli. Ma, in fondo, il mio mestiere — che considero il più bello del mondo — consiste nell’essere scelto e finché mi sceglieranno continuerò a recitare. La prima volta succede perché sei bravo, la seconda perché qualcun altro non poteva, la terza perché è una sfida, la quarta il film te lo produci da solo. Ci sono tante occasioni diverse, ma in questi 25 anni ho sempre avuto le condizioni per poter perseguire un talento: non deve solo esserci ma necessita che venga riconosciuto».
Tornasse indietro cambierebbe qualcosa?
«Le uniche remore che ho sono le non scelte, i posdatati delle scelte o l’inerzia delle scelte, quelle sì. Per il resto, tutto quello che ho scelto veramente di scoprire, nel bene e nel male, anche a livello sentimentale, mi ha messo di fronte all’aspetto luminoso delle opportunità».
C’è un film che, per qualche ragione, l’ha segnata?
«L’Amleto di Zeffirelli: ho amato tutto. La storia, la voce di Giannini che doppiava Mel Gibson, le scenografie, la chiarezza del disagio. All’epoca ero un ragazzo, ho detto solo: mi è piaciuto. Ma la cultura ti fa viaggiare in altri mondi. Ho attraversato mille frontiere, dalla politica alla filosofia. Sono stato Sant’Agostino e Matteotti, un omosessuale e un camorrista, e poi Van Gogh, Cyrano, Re Lear. Viaggi nelle vite degli altri che mi hanno spinto ad approfondire, a conoscere cose nuove».
Alvaro e Bigiaretti erano amici. Chi sono i suoi amici?
«Gli stessi da almeno vent’anni. Il mio più grande è una persona con cui collaboro, laureato in architettura: anche lui pensava avrebbe fatto altro nella vita. Nel mondo del cinema non ne ho, se non meravigliose parentesi. Quelli che considero tali sono gli amici che ci sono sempre stati, con cui non parli delle altre persone, al contrario di quello che vedo spesso fare, ma con cui discuti dei grandi temi. Le amicizie sono una meravigliosa forma d’arte».
Se dovesse individuare dei momenti particolarmente importanti nella sua carriera, quali citerebbe?
«La mia prima regia a teatro, Cyrano de Bergerac, perché attraverso un grande classico ho approfondito tante sfumature del mio appartenere al genere umano: l’amore non corrisposto, il coraggio, la dignità, la bellezza non legata solo all’aspetto fisico. Poi cito un film che non è mai stato distribuito, La cura, diretto da Francesco Patierno e ispirato a La Peste di Camus: è un film che raccontava il Covid e l’andare in soccorso degli altri, mi ha cambiato i connotati. E poi il mio ultimo spettacolo teatrale, le Memorie di Adriano, che agisce a rilascio lento: ho un’età in cui mi devo occupare della mia piccola anima, che sempre più deve prendere posto del corpo».
La bellezza per lei è stata un limite o un’opportunità?
«Ma quale limite? Se fossero tutti così limiti… Nei miei lavori credo che abbia contato al cinquanta per cento. L’altro cinquanta dipendeva da altro. Poi, certo, il tempo passa, i figli crescono, cambiano le letture, vivi i primi lutti… è normale che cambi anche la percezione della bellezza».
Ha detto anche di conoscere l’amore non corrisposto…
«L’amore che non ti corrisponde lo conosco e so che ti fa porre domande su te stesso. Il vero problema non è amare ma farsi amare, quindi anche l’amore non corrisposto non l’ho mai vissuto come un limite ma, anzi, come una responsabilità».
Nel ricapitolare i cardini della sua carriera non ha citato «Elisa di Rivombrosa», che le ha dato grande fama. Come considera oggi quella serie?
«Quando è arrivata Elisa di Rivombrosa non ero pronto. Non ero all’altezza di quel prodotto così ben fatto, della mia partner Vittoria (Puccini, mamma della sua seconda figlia, ndr), della regista (Cinzia Th Torrini). Sono stato messo dentro una cosa e ho scoperto di non saperne nulla. Il dato di fatto è che da allora per un lungo periodo ho sempre affrontato ruoli in costume, mi proponevano sempre quelli, tanto che quando è arrivato quel portale che mi riportò all’oggi, Mine Vaganti, ebbi difficoltà gigantesche».
Di che tipo?
«Nell’essere naturale e raccontare un personaggio contemporaneo. Ricordo cosa mi disse Özpetek quando finii la mia prima battuta: “Bene, questa la andiamo a dire al Teatro Valle”, come a sottolineare che dovevo esprimermi in un modo più naturale. Per me è stato un grande maestro, ho scelto di lasciarmi andare».
L’impostazione teatrale non sempre paga al cinema.
«A teatro noi siamo abituati a dire le cose perché le pensiamo. Al cinema no e non è facile farlo: sono due campionati molto lontani, cerco di giocare in entrambi».
Lei ha due figli: Edoardo, nato nel 1995 ed Elena nel 2006. Cosa significa per lei essere padre?
«La paternità mi ha permesso di esplorare il senso della vita. Chiaramente lo dico con il senno di poi, ma sicuramente devo alla paternità l’attenzione a quella meravigliosa opera d’arte che è l’uomo, non c’è proprio dubbio».
È il padre che pensava di essere?
«Ho il grande rimpianto di aver fatto il padre e non il genitore. Il genitore lo fai quando vivi con i tuoi figli sotto lo stesso tetto e questo è di certo un ruolo che mi manca. Avrei voluto vivere di più quella dimensione quotidiana, poi magari non sarei stato abbastanza bravo… ma è proprio il non saperlo il problema: avrei preferito non sapere altre cose rispetto a questa. Il dato di fatto, però, è che loro sono venuti su benissimo».
La spaventa il presente che stanno vivendo? Sulla guerra di Gaza si sono espressi molti suoi colleghi.
«Non mi addentro nella storicità di quella terra, ma doveva essere fabbrica della vita mentre oggi è fabbrica della morte, come dice anche Erri De Luca nel suo Un viaggio alle radici dellodio. Parla di una terra che, nella promessa, ha “mestruo di latte e miele”. Le cose sono molto diverse, come vediamo. L’impotenza è insopportabile per tutti noi: non possiamo fare altro che manifestare».
Crede che gli artisti debbano esporsi o non è un loro compito?
«L’artista deve esprimersi. È quello che parla in una sala in cui la gente sta zitta ad ascoltare. Deve spingere a ragionare, a farsi delle domande. Ho ammirato Javier Bardem che si presenta con la sciarpa della Palestina agli Emmy, non mi ritrovo con chi si rifiuta di condividere un palco con chi la vede diversamente. Un dato però c’è, ossia la morte non necessaria di tutte queste persone: è un evidente problema politico».
25 settembre 2025 ( modifica il 25 settembre 2025 | 07:42)
© RIPRODUZIONE RISERVATA