critterz

Di solito non vado ai grandi eventi del settore, né fumettistico né cinematografico, ma l’anno prossimo potrei fare una eccezione. Infatti, nel 2026, al Festival di Cannes potrebbe presentarsi un ospite inatteso: un lungometraggio d’animazione che non ha mai visto un disegnatore, un animatore tradizionale o una troupe cinematografica nel senso classico del termine.

Forse ne avete già sentito parlare: si tratta di Critterz, il film che OpenAI sta sviluppando in collaborazione con Vertigo Films e Native Foreign. Rappresenta il primo tentativo serio di produrre un’opera cinematografica di lunghezza standard utilizzando esclusivamente intelligenza artificiale generativa. Il progetto, nato tre anni fa da un’idea di Chad Nelson (il “creativo residente” di OpenAI), promette di trasformare radicalmente i paradigmi produttivi dell’industria dell’intrattenimento.

Con un budget inferiore ai 30 milioni di dollari e tempi di realizzazione di soli nove mesi, Critterz sfida frontalmente costi e tempistiche dell’animazione tradizionale, che per produzioni similari richiedono investimenti di centinaia di milioni e anni di lavorazione. La posta in gioco non è soltanto commerciale: si tratta di stabilire se l’intelligenza artificiale possa sostituire interamente il processo creativo umano nella settima arte.

La cosa che mi intriga più di tutte è l’uso degli strumenti. Perché non è che Nelson scrive un prompt, fa premere invio a Sam Altman e dopo un po’ sul computer appare magicamente il film fatto e finito. No, la cosa è molto diversa, e secondo me in questi particolari ci sono molte cose da scoprire. Intanto, la realizzazione del film poggia su un ecosistema tecnologico sofisticato che integra diversi strumenti di OpenAI.

Si comincia con GPT-5, lanciato nell’agosto 2025, che si occupa della sceneggiatura e dello sviluppo narrativo, gestendo dialoghi, struttura drammaturgica e caratterizzazione dei personaggi. DALL-E invece genera le ambientazioni e i design dei protagonisti, trasformando prompt testuali in universi visivi coerenti e dettagliati. Sora, il sistema di generazione video di OpenAI, assembla le sequenze e produce le animazioni, automatizzando il processo che tradizionalmente richiede migliaia di ore di lavoro manuale da parte di équipe specializzate.

L’unico elemento umano rimasto sono le voci dei personaggi, affidate ad attori professionisti per garantire quella dimensione emotiva che l’AI non riesce ancora a replicare in modo convincente. Però non è che lo storyboard appaia magicamente dai prompt dati a GPT-5. Si tratta invece di un costante avanti e indietro con gli autori in carne e ossa. Oltretutto, gli storyboard vengono fatti a mano. La loro importanza è notevole, perché nel cinema di animazione comprendono anche l’editing, cioè il montaggio, già fatto. Questo a differenza del cinema “tradizionale”, con gli attori in carne e ossa, in cui si gira “un po’ di più prima e un po’ di più dopo”, perché tanto i fotogrammi hanno un costo marginale molto più basso.

Di che cosa parla Critterz? La trama segue le avventure di creature fantastiche il cui mondo viene sconvolto da forze maligne, un concept classico che permette di testare le capacità dell’AI nella gestione di archetipi narrativi consolidati. La scelta di una storia relativamente semplice non è casuale: serve a dimostrare che l’intelligenza artificiale può padroneggiare le convenzioni del cinema di genere senza necessariamente innovarle.

Come ho scritto sopra, la supervisione umana rimane centrale per garantire coerenza artistica e qualità del prodotto finale, ma il motore creativo è interamente algoritmico. Questo approccio ibrido potrebbe rappresentare il modello standard per la produzione cinematografica del prossimo futuro, dove l’intervento umano si limita alla direzione strategica mentre l’esecuzione viene delegata alle macchine.

A parte quella che secondo me è la genialata comunicativa di OpenAI, cioè fare un film generato dall’AI, la cosa interessante è la sua “producibilità” e il suo costo. I numeri di Critterz raccontano infatti una rivoluzione che va ben oltre gli aspetti artistici: nell’espressione “industria culturale”, quello che conta qui è “industria”, cioè massimizzazione del profitto. Vediamo un paio di numeri per capire di cosa stiamo parlando.

Trent’anni fa, Il Re Leone dei Walt Disney Animation Studios costò 45 milioni di dollari e richiese quattro anni di produzione con un esercito di animatori. Oggi, un film Pixar medio supera i 200 milioni di budget e impiega team di centinaia di professionisti per periodi che vanno dai tre ai cinque anni. OpenAI ha tirato fuori dal cappello l’idea di realizzare un lungometraggio d’animazione con meno di 30 milioni e in 9 mesi, eliminando l’85% dei costi tradizionali e riducendo i tempi di tre quarti.

Queste cifre, se il film si farà e saranno quelle vere, renderanno obsoleto l’intero modello produttivo dell’animazione contemporanea. La democratizzazione dei costi potrebbe aprire il mercato a migliaia di nuovi produttori, ma al tempo stesso minaccerebbe l’esistenza di intere categorie professionali: disegnatori, animatori, artisti degli effetti speciali, coloristi e decine di altre specializzazioni che hanno costruito l’industria dell’animazione moderna.

L’impatto occupazionale di questa trasformazione supera le dimensioni del settore cinematografico. L’animazione è infatti il settore creativo più labor-intensive, quello che tradizionalmente ha garantito lavoro stabile a migliaia di professionisti qualificati in tutto il mondo. Se l’AI riuscisse effettivamente a sostituire queste competenze, l’effetto domino si estenderebbe a pubblicitari, sviluppatori di videogame, creatori di contenuti per social media e produttori televisivi. Tutti quelli che oggi entrano in una scuola di cinema, di animazione, in una accademia o in uno studio d’arte e che hanno come promessa di trovare un impiego stabile presso una società che produce un pezzetto per la grande macchina dell’industria culturale rischiano di restare con un pugno di mosche.

La promessa di OpenAI non è solo quella di ridurre costi e tempi, ma di rendere l’animazione accessibile a chiunque abbia una storia da raccontare e un budget ridotto. Far fuori tutto quello che fa da contorno e che finora facilitava l’idea di pochi. Questo scenario, apparentemente democratico, nasconde però un paradosso: la standardizzazione degli strumenti potrebbe portare anche a una omologazione estetica senza precedenti, dove i contenuti finirebbero per assomigliarsi tutti fra loro, perché generati dagli stessi algoritmi.

Mi spiego meglio. Anche se apparentemente sono pochi soldi, in realtà 30 milioni o giù di lì sono tanta roba. Vanno in mano solo alle case di produzione che vogliono giocare la partita dei grandi canali di distribuzione: cinema IMAX e servizi di streaming “di qualità” (leggi Netflix, Disney+, Amazon Prime Video, Apple TV+, Paramount+ e via dicendo). Gente che gioca in Champions League, non nella squadretta di padel della palestra. E quelli che giocano in Champions vogliono assolutamente che i loro prodotti costino poco e abbiano molto successo. L’algoritmo (secondo loro) è la risposta: capire cosa alla gente piace e darglielo a vagonate. Legare le produzioni al “sentiment” e ai gusti del pubblico.

Come si fa? Semplice: si va veloci. Perché la velocità di produzione promessa da Critterz introduce anche una dimensione temporale inedita nel ciclo creativo. Nove mesi per un lungometraggio significa che i contenuti possono essere adattati in tempo reale alle tendenze del mercato, ai feedback del pubblico o agli eventi di attualità. Questa reattività può trasformare il cinema da medium riflessivo a strumento di comunicazione immediata, più simile al giornalismo/documentarismo che all’arte tradizionale.

Le implicazioni estetiche e culturali di questa accelerazione sono difficili da prevedere, ma l’idea è che possano portare a una frammentazione ulteriore dell’attenzione del pubblico e alla perdita di quella dimensione contemplativa che ha sempre caratterizzato l’esperienza cinematografica.

Un’altra cosa. Secondo me, che sono un grande amico e amante dell’intelligenza artificiale, l’aspetto più inquietante del progetto OpenAI non risiede nelle sue ambizioni tecnologiche, ma nella filosofia produttiva che sottende. Critterz tratta la creatività come un problema di ottimizzazione da risolvere attraverso algoritmi, riducendo l’arte a una questione di efficienza e costi.

Questa visione ingegneristica del processo creativo ignora volutamente tutto ciò che rende unica un’opera d’arte: l’imprevedibilità, l’errore felice, la visione personale dell’autore, i suoi limiti (che lo costringono ad arrangiarsi), il confronto dialettico tra diverse sensibilità creative. Un film tradizionale nasce dal conflitto e dalla collaborazione tra decine di professionisti con background, culture e visioni diverse; un film generato dall’AI emerge da pattern matematici derivati dall’analisi statistica di opere preesistenti. Riducendo al massimo il contributo umano, si uniforma il gusto a quello dei pochi coinvolti e si minimizza la probabilità di contaminazioni produttive. Il rischio non è solo l’omologazione estetica, ma la perdita di quella dimensione umana che trasforma l’intrattenimento in cultura e la cultura in strumento di comprensione del mondo.

E veniamo al perché nel 2026 la tentazione di andare al Festival di Cannes è forte. La scelta di presentare Critterz a Cannes non è casuale: OpenAI vuole legittimare la propria proposta nel tempio del cinema d’autore, dimostrando che l’AI può competere anche sul terreno dell’arte alta. Questa strategia rivela un’ambizione che va ben oltre il mercato dell’animazione commerciale. Si tratta di conquistare credibilità culturale per aprire la strada alla colonizzazione algoritmica di tutto il settore cinematografico. Se Cannes accetterà di proiettare un film interamente generato dall’AI, sancirà simbolicamente la fine del cinema come medium specificatamente umano. La posta in gioco è quindi molto più alta di quanto non sembri: non si tratta solo di efficientare la produzione, ma di ridefinire cosa sia il cinema e chi abbia il diritto di farlo.

Per questo possiamo anche cercare di capire come gira il fumo in questo momento. E la risposta è semplice: l’industria dell’intrattenimento osserva Critterz con una miscela di curiosità e terrore, consapevole che il successo del progetto OpenAI potrebbe innescare una corsa all’automazione senza precedenti. Le major hollywoodiane stanno già sperimentando l’AI in varie fasi della produzione, lo sappiamo bene (e ci siamo beccati anche uno sciopero preventivo degli sceneggiatori americani alcuni anni fa che ha fatto slittare i programmi di produzioni grandi e piccole), ma nessuna di esse ha ancora osato tentare l’automazione completa di un lungometraggio.

Invece, il precedente di Critterz potrebbe fornire il pretesto per accelerare questa transizione, giustificando licenziamenti di massa con l’argomento dell’inevitabilità tecnologica. La resistenza delle categorie professionali e dei sindacati si sta per scontrare, inevitabilmente aggiungere, con la logica economica di un’industria sempre più concentrata nelle mani di poche corporation globali, per le quali l’AI rappresenta soprattutto l’opportunità di ridurre drasticamente il potere contrattuale dei lavoratori creativi. Dopotutto, chi è nel business di fare soldi ha tutto l’interesse ad automatizzare la produzione dei beni e a de-specializzare gli addetti del settore, rendendoli interscambiabili nelle varie fasi della produzione.

La cosa che secondo me è veramente surreale – ed è anche il paradosso più sottile di Critterz – sta nella retorica democratica che accompagna il progetto. OpenAI presenta l’AI generativa come uno strumento di liberazione creativa, capace di abbattere le barriere economiche e tecniche che impediscono ai piccoli creator di competere con le major.

Questa narrazione, superficialmente convincente, nasconde però una verità più complessa: l’accesso agli strumenti di creazione si democratizza, ma il controllo sulla tecnologia si concentra nelle mani di poche aziende tecnologiche. È un classico, oserei dire. Infatti, adesso chi possiede i modelli di AI possiede di fatto le chiavi della produzione culturale futura, decidendo cosa può essere creato, come e a quali condizioni. La dipendenza dagli algoritmi di proprietà di OpenAI, Google o Microsoft sostituirà la dipendenza dalle major cinematografiche con una forma di controllo ancora più pervasiva e meno trasparente? Non so se sia probabile, so che decisamente non è impossibile.

La promessa di democratizzazione si scontra inoltre con la realtà dei costi di sviluppo e mantenimento dei sistemi di AI generativa. Mentre utilizzare questi strumenti potrebbe diventare relativamente economico, svilupparli richiede investimenti miliardari e risorse computazionali accessibili solo ai giganti tecnologici.

Questa asimmetria crea una dipendenza strutturale che potrebbe rivelarsi più limitante dei vecchi modelli industriali: almeno Hollywood aveva centinaia di attori economici, mentre l’AI generativa è dominata da una manciata di corporation che controllano l’intera filiera tecnologica. Il futuro dell’industria culturale potrebbe quindi assomigliare meno a un mercato competitivo e più a un oligopolio dove poche piattaforme decidono cosa il mondo può vedere, sentire e immaginare.

A questo punto avrete capito che secondo me Critterz non solo è una genialata della comunicazione di OpenAI, ma rappresenta anche molto più di un esperimento cinematografico. È, infatti, il banco di prova per un modello di produzione culturale completamente automatizzato, dove l’intervento umano si riduce a impartire istruzioni alle macchine.

Se il film riscuoterà un successo commerciale e critico, avrà la possibilità di aprire la strada a una trasformazione irreversibile dell’industria dell’intrattenimento, con conseguenze che si estendono ben oltre i confini del cinema. Secondo me, insomma, la vera partita non si gioca sulla qualità artistica di un singolo film, ma sul futuro della creatività umana in un mondo dove gli algoritmi possono replicare, ricombinare e produrre contenuti culturali a velocità e costi che nessun essere umano può eguagliare.

Quindi, almeno per me, il 2026 diventa una data-simbolo: non segnerà solo l’uscita di un film d’animazione, ma potenzialmente l’inizio della fine dell’industria culturale così come l’abbiamo conosciuta finora.

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Antonio Dini, giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. La sua newsletter si intitola: Mostly Weekly.

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