Recensione di
Emanuele Sacchi
giovedì 25 settembre 2025
Gabby parte per un emozionante viaggio on the road insieme a sua nonna Gigi verso la città di Cat Francisco. Ma quando la sua preziosissima casetta delle bambole finisce nelle mani sbagliate dell’eccentrica gattara Vera, Gabby dovrà affrontare una straordinaria avventura nel mondo reale per ritrovare i suoi Gabby Cats e salvare la casetta prima che sia troppo tardi.
Sin dalle prime scene di La casa delle bambole di Gabby – Il film si avverte un senso di disagio: la protagonista Laila Lockhart Kraner, che riprende il ruolo della popolare serie di animazione per bambini, è cresciuta a dismisura e vederla strizzare le orecchiette da gatto per miniaturizzarsi ed entrare nella casa di bambole sortisce uno strano effetto.
Almeno quanto scoprire che la nonna è Gigi, alias Gloria Estefan, gloria della musica latinoamericana, nei panni di una stralunata gattara che ha iniziato Gabby alla magia. Quel che ancora non sappiamo è che Ryan Crego ha l’accortezza di sfruttare questo disagio sul piano narrativo, facendo del primo lungometraggio dedicato a Gabby una riflessione sulla fine dell’infanzia e l’approdo dell’adolescenza, un luogo di tempeste ormonali in cui gattini-scatola o gattini-dolcetto appaiono sempre più fuori posto. Una tematica abbondantemente trattata in tempi recenti, e con particolare cura, da Disney in Toy Story 3 e poi in Inside Out, con il tragico sacrificio di Bing Bong che permette a Riley di crescere e affrontare il dolore.
Curiosamente la rivale Dreamworks attinge alla medesima fonte ma ne altera la morale, privilegiando il fanciullino interiore (ne sarebbe fiero il nostro Giovanni Pascoli) a prescindere dall’età anagrafica. A farne tesoro è il personaggio di Vera, che ha ormai trasformato la magia del gioco d’infanzia in sterile collezionismo, monetizzando la propria passione ma smarrendone lo spirito. Kristin Wiig si prodiga nel ruolo di Vera, una sorta di Crudelia De Mon dagli artigli smussati, nel tentativo di rendere cinematografico un copione che tuttavia resta troppo unidimensionale per sfuggire alla trappola del maxi-episodio dilatato.
La piacevolezza della serie La casa delle bambole di Gabby stava proprio nel consegnarsi anima e corpo al Paese delle meraviglie, regalando per una decina di minuti la sensazione che la realtà si potesse sospendere e gli affanni si potessero chiudere in un cassetto. Ma la transizione al lungometraggio si rivela ardua come la salita del Cerro Torre per un concept totalmente inadeguato a riempire un’ora e mezza e trascinare in sala chiunque abbia superato i sei anni di età. Il target di destinazione rimane quello di un pubblico in età prescolare, senza villain né quesiti esistenziali, senza tinte fosche che possano turbare il coloratissimo mondo zuccheroso di Gabby.
Ma che fatica a ritrovarsi in una storia che prova a inserire elementi eterogenei (la mercificazione imperante, che riguarda anche le ragazzine scout oltre a Vera) senza riuscire a mimetizzarli adeguatamente nella narrazioni. Siamo poi sicuri che sia educativo insegnare a restare prigionieri di sorrisi e arcobaleni glassati quando il corpo suggerisce altro? Inside Out 2 insegnava come il segnale di allarme della pubertà fosse ideato per non rimanere inascoltato: difficile che la sordina di Gabby sia sufficiente ad attenuarlo.
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