«Abbiamo iniziato sognando e continuiamo a sognare». Dieci anni fa apriva Camera, Centro Italiano per la Fotografia, nell’ottocentesco edificio delle prime scuole gratuite del Regno di Sardegna, a Torino, oggi spazio d’arte e pensiero sull’immagine in tutte le sue forme e metamorfosi: 600mila visitatori, 350 ospiti, 85 mostre, dalla prima sull’ucraino Boris Mikhailov fino all’ultima di Alfred Eisenstaedt, passando per Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau, Tina Modotti, Eva Arnold, Carlo Mollino, Man Ray. Con la personale di Lee Miller dal 1 ottobre inizia un anno di festeggiamenti: martedì la Mole avrà un’illuminazione speciale per ricordarcelo e nei prossimi mesi debutterà la prima fiera dell’editoria fotografica contemporanea, settore in cui Torino si candida capofila. Diretta da Walter Guadagnini, è Emanuele Chieli il presidente fin dal primo giorno.

Al compleanno si esprime un desiderio…
«Vorrei crescesse ancora di più a livello internazionale, mantenendo profonde radici sul territorio»

“Operazione Camera Italia”?
«Stiamo lavorando per portare Camera sempre più fuori Torino con mostre itineranti e progetti condivisi. Immagino una “Camera 2”, un sogno più che un progetto».

Sogniamo ancora: dove?
«A Roma. Lì l’offerta culturale fotografica potrebbe essere arricchita e, allo stesso tempo, la capitale e Torino sono sufficientemente distanti per non sovrapporsi».

Quest’estate è arrivato il premio Lucie Spotlight Award, in pratica l’Oscar della fotografia: il mondo comincia ad accorgersi di Camera?
«È stato inaspettato, non ci eravamo candidati. Credo che la svolta sia arrivata con la grande mostra sulla collezione di Thomas Walther organizzata con il MoMA di New York , il Jeu de Paume di Parigi e il Masi di Lugano: è stato un momento di grande visibilità internazionale».

In cosa la fotografia è diversa dalle altre arti?
«Nella facilità di fruizione. Ha meno vincoli logistici ed economici. E poi parla un linguaggio immediato, soprattutto alle nuove generazioni. Oggi tutti scattano foto, e questo fa sì che ci si approcci con meno soggezione e timori referenziali».

L’identikit del pubblico?
«Preparato, curioso, mediamente più giovane rispetto ai visitatori di altri musei».

In questa sovrabbondanza di scatti, che ruolo ha Camera?
«Oggi abbiamo un approccio bulimico: scattiamo, archiviamo, accumuliamo senza nemmeno riuscire a guardare davvero i nostri scatti. E spesso siamo disarmati difronte ad un’immagine. In questo panorama, Camera lavora sull’educazione all’immagine per formare giovani più critici e consapevoli. Significa anche contrastare fenomeni come il cyberbullismo o l’uso superficiale e irresponsabile delle foto».

Si riferisce a chi scatta o a chi guarda?
«Intendo produzione e fruizione. Davanti a una foto si abbassano le difese e si tende a considerarla vera. Ma la veridicità è relativa: cambia con l’angolatura, il contesto, la didascalia. Con l’arrivo dell’IA e delle immagini modificate, paradossalmente siamo diventati più critici. La prima domanda che ci poniamo ora è: “Questa foto è vera o è artificiale?”. È un passo avanti nella consapevolezza».

È più spaventato o interessato dall’IA ?
«Incuriosito, purché non si arrivi a l’utilizzo manipolatorio e politico delle immagini. Quello mi preoccupa».

Quanto è politica la fotografia oggi?
«Può esserlo ma non necessariamente deve esserlo. La storia ci insegna che le opere più memorabili sono spesso quelle politiche, di rottura. Tra i temi più ricorrenti ora ci sono la guerra e il clima, e inevitabilmente la fotografia riflette queste urgenze».

Influenzano la selezione delle mostre?
«Camera è attenta al presente; e anche nella proposta di grandi autori e autrici del Novecento cerca di mostrarne il lato più contemporaneo».

In 10 anni la fotografia è cambiata velocemente: il primo selfie del Papa è solo del 2013. Dove andrà?
«Verso qualcosa di diverso. Non è più solo rappresentazione del reale: è composizione grafica, algoritmo, nuove tecniche. È artefazione, ma non per questo meno arte. Oggi ci sono artisti che non scattano nemmeno, ma lavorano su immagini preesistenti, utilizzando altri supporti, scanner, luci, carte speciali. Parlare solo di “fotografia classica” sarebbe riduttivo».

A Torino Intesa Sanpaolo ha aperto le Gallerie d’Italia, con focus sulla fotografia: c’è concorrenza?
«Le nostre programmazioni sono diverse e complementari. La loro presenza è un valore aggiunto: in questo caso uno più uno non fa due, ma molto di più. Oggi la città è un punto di riferimento europeo per quest’arte».

C’è anche Exposed, giovanissimo festival internazionale della fotografia, che a Torino cerca un nuovo gestore: siete pronti?
«Abbiamo partecipato al bando. Sarebbe un’opportunità straordinaria per mettere insieme istituzioni, galleri, altri attori, valorizzando la ricca tradizione fotografica torinese. Il festival dev’essere per e della città».