Luigi Maria Prisco racconta il padre Peppino, avvocato dell’Inter e vicepresidente dal 1963 al 2001: “Il presidente Fraizzoli gli disse no due volte. Le sue battute? Le migliori non si possono raccontare. Aveva tempra: per questo si salvò nella ritirata degli Alpini dalla Russia”
Giornalista
25 settembre – 23:07 – MILANO
Non l’ha mai chiamato papà: “Sempre e soltanto Peppino e a lui stava bene così”. Luigi Maria Prisco è il figlio di Giuseppe Prisco. Avvocato come il padre, da qualche mese è in pensione. Ha lasciato lo studio in via Podgora, adiacente al Tribunale di Milano: “Per decenni abbiamo difeso l’Inter senza chiedere mai un soldo, né per le parcelle né per le spese”. Giuseppe “Peppino” Prisco è stato un mito della storia dell’Inter, l’ha servita per oltre mezzo secolo, come vicepresidente dal 1963 fino alla morte, nel 2001.
Avvocato, suo padre che cosa architettò per farla diventare interista?
“Il problema non si è posto. Lui, nella mia infanzia, non mi parlava mai delle altre squadre, della cui esistenza appresi a scuola, in prima elementare. Quando gli chiesi del Milan e della Juve, rispose: ‘Lascia stare, quelli non contano niente’. Era astuto”.
Le sue battute erano folgoranti: tra le tante, qual è la sua preferita?
“Quella che non si può pronunciare. In pubblico usava un linguaggio acconcio, in ambito domestico no, si lasciava andare a frasi non riferibili. Peppino però è stato ben altro che un battutista, era un grande avvocato e dirigente calcistico”.
L’allenatore che preferiva?
“Negli ultimi anni si era affezionato a Gigi Simoni, ma più di tutti aveva ammirato Helenio Herrera, anche se con il Mago c’erano stati dei contrasti per via delle spigolosità caratteriali. Una volta, non ricordo più per quale amichevole, si sedette in panchina accanto a Helenio. A un certo punto Herrera fece entrare Jair e il nostro brasiliano si fece il segno della croce. Peppino chiese: ‘Ma Jair di quale religione è?’. E il Mago, sfregandosi le dita: ‘Della mia, quella del dinero’. Herrera era molto legato al denaro, ma si meritava i soldi che guadagnava. Andò da Angelo Moratti, il presidente dell’Inter di allora, a chiedergli il doppio dell’ingaggio del giocatore più pagato perché, diceva, in spogliatoio doveva avere prestigio. Moratti padre non batté ciglio e lo accontentò”.
Il giocatore più amato?
“Peppino adorava Facchetti perché Giacinto, oltre a giocare molto bene, esprimeva signorilità ed eleganza. Diceva che sarebbe diventato un campione in qualunque sport, dall’atletica al tennis. Se lo immaginava come un atleta olimpico”.
Facchetti, post mortem, è stato tirato in ballo per Calciopoli, suo malgrado. L’avvocato Prisco, quando scoppiò lo scandalo, non c’era più: come avrebbe affrontato la vicenda?
“Papà, come Facchetti, aveva intuito che c’erano degli intrallazzi, ma non aveva le prove. Da avvocato sapeva che queste cose vanno dimostrate e che in alternativa bisogna armarsi di cristiana pazienza e aspettare, sperando di essere più forti anche dei cosiddetti errori arbitrali. Alla lunga venne fuori tutto”.
Per suo padre l’avversario più sentito era la Juve?
“No, il Milan, perché noi dell’Inter nasciamo da uno scisma, da una separazione traumatica con il Milan e questa cosa ce la portiamo dentro”.
Sui social è diventato virale un video in cui suo padre orchestra un coro contro il Milan: “Torneranno, torneranno in Serie B”.
“Eravamo a Vienna, nel 1994 per l’andata della finale di Coppa Uefa (che l’Inter vinse, ndr). Passeggiavamo in un’isola pedonale, Peppino venne riconosciuto da un gruppo di tifosi che gli chiesero di dire o fare qualcosa. E lui non trovò di meglio che prodursi in questa intemerata contro il Milan di Berlusconi, all’epoca fortissimo. Il proprietario di un locale nei pressi chiamò la polizia perché temeva tumulti. Gli agenti arrivarono in pochi attimi, pensavano che Peppino stesse orchestrando una protesta politica. Quando spiegammo loro che era una questione di calcio milanese, scoppiarono a ridere”.
Suo papà era in ottimi rapporti con Silvio Berlusconi.
“Lo conobbe nel 1972, quando Berlusconi era un semisconosciuto costruttore e molti ne storpiavano il cognome in Bernasconi. Peppino venne a casa e disse che nella sede dell’ordine degli avvocati a Milano si era presentato un certo Silvio Berlusconi per chiedergli di intercedere con Ivanoe Fraizzoli, il presidente dell’Inter di allora. Sì, Berlusconi voleva comprare l’Inter. Peppino era rimasto colpito da Berlusconi: ‘Mi ha fatto un’impressione enorme, ha le idee molto chiare’. Non so se volesse l’Inter perché interista e non milanista o perché la considerasse più acquistabile rispetto al Milan. Peppino gli procurò un colloquio con Fraizzoli, ma il presidente disse di no: ‘Lei ha 35 anni, è troppo giovane, ritorni tra dieci anni'”.
“Sì, all’inizio degli anni Ottanta e Fraizzoli disse un’altra volta di no. Era scoppiato lo scandalo della P2, tra gli iscritti era saltato fuori anche il nome del Cavaliere e Fraizzoli, che era un po’ moralista, sentenziò: ‘Non vendo l’Inter a un piduista’. Che poi tanta gente si è ritrovata iscritta alla P2 senza saperlo”.
Berlusconi, in occasione di un derby, introdusse suo papà nello spogliatoio del Milan: le risulta?
“È una voce che gira, ma a me lui non lo ha mai detto. Se è successo, spero che il giorno dopo sia andato a confessarsi”.
Suo padre avvocato: è vero che negli anni Settanta, durante il boom dei rapimenti, condusse molte trattative per liberare i rapiti?
“Confermo. Le famiglie lo chiamavano perché aveva dimostrato abilità nelle mediazioni. Lavoravo già in studio e non volevo entrare in quelle contrattazioni”.
Dagli archivi è spuntata fuori una causa contro Mina.
“Una causa di lavoro, in sede civile. Peppino in tribunale ottenne un risarcimento di diverse decine di milioni di lire per conto di una casa discografica. Mina aveva violato il contratto, era passata alla Ricordi che le offriva di più, ma era ancora legata alla Italdisc, mi pare. Un giornale scandalistico, riferito a Peppino, titolò: ‘Spoglierò Mina, dovessi inseguirla per tutta la vita’ o qualcosa del genere. Spogliarla dei suoi beni era il significato vero, il titolista aveva giocato sul doppio senso. Peppino a casa si difese: ‘Figuratevi se io voglio denudare Mina, mai detta una cosa del genere!’. Recuperare i soldi con Mina fu problematico. Una volta, al termine di uno show, le fece pignorare la pelliccia, che però, si scoprì poi, non apparteneva a lei, ma a una ditta che le noleggiava. Mina prese a indossare gioielli di scarso valore, bigiotteria, niente oro. Non so quanto Peppino abbia recuperato”.
L’avvocatura e poi la Seconda guerra mondiale. Da tenente degli alpini partecipò alla campagna di Russia.
“Mi raccontava tanto della guerra, specie quando ero bambino. Vicende che mi terrorizzavano: morti, congelamenti e amputazioni di gambe e braccia, episodi cruenti. La famosa ritirata non era stata esattamente una ritirata. A un certo punto gli alpini erano ritornati indietro, sui loro passi, per combattere intensamente. Poi ruppero l’accerchiamento e si aprirono un varco. Peppino apparteneva alla Divisione Julia. Camminarono a piedi nel gelo per centinaia di chilometri, vennero decimati. Lui stesso rischiò di morire. Come capitò a tanti, un giorno si lasciò andare nella neve, sopraffatto dal sonno e dal torpore, per sfinimento e denutrizione. Lo caricarono su un mulo e lo salvarono. Mio padre aveva una tempra notevole. Dalla cintola in su era normale, ma aveva due gambe d’acciaio, due tronchi, perché giocava a calcio, praticava il ciclismo, andava in montagna, e tutto questo lo ha aiutato, in Russia”.
Conferma che nella steppa, prima dell’inverno e della tragedia, barattò del cibo per una copia della Gazzetta?
“Notò un alpino che leggeva la Gazzetta di qualche giorno, se non di qualche settimana prima. Una copia arrivata lì chissà come. Era affamato di notizie sull’Inter e offrì al militare una scatoletta di carne in cambio del giornale. Poi andò a cercare l’articolo sulla sua squadra. Titolo: ‘L’Ambrosiana (allora si chiamava così, ndr) perde a Bologna e scende al secondo posto’. Imprecazione: ‘Ma vaff…'”.
Di ritorno in Italia, si spese per trovare una casa editrice a Giulio Bedeschi, autore di “Centomila gavette di ghiaccio”, il libro sull’epopea degli alpini in Russia.
“Si rivolse ai maggiori editori, da Rizzoli a Mondadori, e ricevette dei no arroganti. Bedeschi trovò da solo la soluzione, si fece pubblicare il libro da Mursia e il successo fu clamoroso, migliaia di copie vendute. Papà ne fu molto contento”.
L’avvocato Peppino Prisco come avrebbe smaltito la batosta nella finale contro il Psg?
“Con una battuta: ‘5-0? A me non risulta, i giornalisti ne inventano tante’”.
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