Con l’avvicinarsi della Legge di bilancio riemerge il dibattito relativo alle risorse da destinare alla sanità

Quando si supera l’equinozio d’autunno (cioè in questi giorni di settembre) si entra nell’ultimo quarto dell’anno solare e si comincia a pensare con una certa insistenza alle risorse che serviranno per l’anno a venire.

Qualche settore è più prudente e viaggia un po’ sottotraccia, ma per la sanità (quest’anno già accesa molto in anticipo per via della scadenza elettorale in alcune regioni) è il momento in cui i motori, per altro sempre caldi durante il corso dell’anno, arrivano al massimo dei giri ed esprimono tutta la loro potenza e le loro necessità.

Ne sta parlando da tempo, e con una certa insistenza, il ministro Schillaci, che ha già in tasca un bonus di almeno 4 miliardi dagli anni precedenti, che sembrava averne raccolti un altro paio dal collega Giorgetti qualche tempo fa, ma che più recentemente ha continuato a sottolineare l’obiettivo di superare i 4 miliardi quasi a dire che forse l’assegno di Giorgetti non è ancora stato portato all’incasso.

Ne parlano ovviamente le opposizioni chiedendo di portare il finanziamento del Ssn al 7,5% del Pil (il Pd) o addirittura al 8% del Pil (il M5S), tanto non sono soldi loro, non è loro responsabilità, e quando è toccato ai loro gGoverni hanno raggiunto l’obiettivo di togliere decine di miliardi (c’è chi dice addirittura 40 miliardi) dal servizio sanitario (salvo poi mettere per forza qualche miliardo in più per via della pandemia da Sars-CoV-2).

Ne ha parlato ultimamente, ricevendo molta audience su tutti i mezzi di comunicazione, anche Nino Cartabellotta, presidente Gimbe, prendendo lo spunto dai nuovi (aggiornati) valori delle nazioni Ocse, e mettendo l’accento sia sul rapporto tra spesa e Pil che sulla spesa pro-capite. Secondo le analisi di Gimbe, nel 2024 la spesa del servizio sanitario ammonterebbe al 6,3% del Pil, mentre la media delle nazioni europee arriverebbe al 6,9% del Pil e quella dei paesi Ocse addirittura al 7,1%.

Sempre in termini di dati, la spesa sanitaria pro-capite (considerando il solo Ssn e non la spesa privata a carico dei cittadini) del nostro Oaese si trova al 14° posto tra le 27 nazioni dell’Europa che fanno parte dell’area Ocse e, fa osservare Gimbe, sarebbe all’ultimo posto se considerassimo solo le nazioni del G7.

Tutti questi paragoni, così come tanti altri che periodicamente vengono proposti con le altre nazioni, hanno il solo scopo di spingere il Governo a mettere più risorse nel servizio sanitario nazionale (obiettivo per altro condivisibile), ma sono paragoni molto discutibili. Vediamo perché.

Premesso che i paragoni internazionali sono utili per tanti obiettivi di programmazione sanitaria, ma vanno presi sempre con le molle, come non ci stanchiamo mai di ripetere quando ne scriviamo in questi appunti, essi ci dicono quanto un Paese è disposto a mettere risorse nel Ssn, ma eludono la domanda fondamentale, e cioè: quanto è necessario metterne.

Il fatto che la Germania e la Francia, ad esempio, spendano almeno un paio di punti percentuali in più di noi nel loro servizio sanitario non è necessariamente un pregio e non deve per forza diventare un obiettivo per l’Italia: se poi si osserva che la vita media degli italiani è più lunga sia di quella dei francesi che di quella dei tedeschi ci si potrebbe giustamente chiedere l’utilità della maggiore spesa sanitaria dei nostri vicini (anche se è evidente che la durata della vita non dipende solo dal servizio sanitario).

Ma anche il paragone con la media europea può lasciare molto a desiderare. Tale media è infatti la combinazione di chi spende tanto (Svizzera, Germania, Lussemburgo, ecc.) e di chi spende molto poco (tutto l’est europeo): perché una media così, frutto di servizi sanitari totalmente diversi (nell’organizzazione, nella copertura dei diritti, nel rapporto pubblico-privato, negli esiti delle cure, ecc.), installati in Paesi caratterizzati da una ricchezza molto eterogenea, dovrebbe essere un obiettivo per il nostro Paese?

E allora torniamo alla questione fondamentale: quante risorse è necessario mettere nel Ssn? La risposta teorica è facile: tante quante ne richiederebbe il bisogno sanitario cui si intende dare risposta, ma il problema è che nessuno è in grado di trasformare questa risposta in un numero (o almeno in un range di valori), e da qui nascono tutte le proposte di finanziamento che girano sul mercato.

Tra le tante quella che sembra avere maggiore interesse e concretezza è quella formulata dalla Corte Costituzionale (sentenza 195/2024), che non fissa un livello percentuale rispetto al Pil, che non fa un confronto con altre nazioni (o con la loro media), ma prende atto della realtà del nostro Paese e dello svuotamento di risorse che ha caratterizzato la sanità degli ultimi quindici anni, e che suggerisce un percorso che come tale deve essere esplorato di volta in volta a partire dalla presa d’atto della scarsità di risorse del nostro Paese:

prima di sacrificare la spesa per la sanità bisogna ridurre le altre spese indistinte, almeno “fintanto che esistono risorse che il decisore politico ha la disponibilità di utilizzare per altri impieghi che non rivestono la medesima priorità”.

La Consulta, correttamente, non mette rigidi paletti, non fa fare irrealizzabili sogni di gloria, responsabilizza direttamente la politica a cui spettano le vere decisioni e traccia una strada praticabile di buon senso: si deve andare alla ricerca di tutte le risorse possibili. Sarà poi il dibattito politico a dimostrare se la ricerca sia andata nella direzione auspicata dalla Consulta o se si siano privilegiate altre strade.

Nel non fissare specifici paletti alle risorse dalla Consulta viene però anche, indirettamente, un secondo messaggio: l’equilibrio tra bisogni (e domanda) e risorse non può essere governato solo sul lato delle seconde ma richiede un intervento regolatorio su entrambi i capitoli, atteggiamento che trova (purtroppo) poca realizzazione pratica perché è molto più facile urlare che mancano le risorse.

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