Cinque team e otto cicliste ricorrono al Tribunale Arbitrale dello Sport contro l’Unione Ciclistica Internazionale. Alla vigilia della prima tappa del Giro di Romandia Donne dello scorso agosto, le squadre Canyon//SRAM zondacrypto, EF Education-Oatly, Lidl–Trek, Picnic PostNL e Visma | Lease a Bike furono escluse dalla corsa da parte dell’UCI a seguito di uno scontro riguardante il test su un nuovo sistema di localizzazione GPS (quello che si sta utilizzando in questi giorni ai Mondiali di Kigali) che doveva svolgersi durante la gara elvetica, come era stato annunciato una settimana prima della corsa dal massimo organismo mondiale del ciclismo.
Le formazioni poi squalificate si erano però rifiutate di nominare una loro ciclista che avrebbe dovuto indossare il dispositivo GPS per il test, sostenendo che era la stessa UCI a doverlo fare e a doversene prendere la responsabilità. Quest’ultima aveva invece deciso di non rispondere alle rimostranze dei team e di procedere comunque, scegliendo quindi di escludere le squadre dalla gara elvetica e, come riportato nel comunicato emesso quest’oggi dalle cinque compagini, minacciando anche di revocare le loro licenze. Per questo motivo, le squadre e le cicliste si sono ora appellate al TAS.
“Cinque squadre professionistiche femminili – Canyon//SRAM zondacrypto, EF Education – Oatly, Lidl–Trek, Team Picnic PostNL e Visma | Lease a Bike – e otto cicliste hanno presentato ricorso al Tribunale Arbitrale dello Sport (TAS) contro la loro squalifica dal Giro di Romandia Donne ad agosto – recita il comunicato emesso dalle squadre – Oltre alle squalifiche, l’UCI ha deferito le squadre alla sua Commissione Disciplinare e ha minacciato di revocare le loro licenze tramite la Commissione Licenze UCI“.
“Il ricorso chiede al TAS di riesaminare la decisione dell’UCI di espellere cinque squadre e squalificare 30 cicliste dopo un test di sicurezza con localizzatori GPS. L’UCI aveva imposto l’uso di un dispositivo sperimentale sviluppato dal suo sponsor, Swiss Timing, in una gara professionistica, senza previa consultazione o comunicazione trasparente“.
“Le squadre e le cicliste avevano espresso la volontà di collaborare al test, chiedendo all’UCI di montare i dispositivi sulle biciclette e di nominare le cicliste di conseguenza. Quando l’UCI ha rifiutato di farlo, le squadre e le cicliste sono state successivamente squalificate. I ricorrenti sostengono che la squalifica collettiva abbia violato il regolamento dell’UCI, fosse sproporzionata, imposta senza un giusto processo e applicata in modo tale da intimidire le cicliste e le squadre“, conclude il comunicato.
