L’ex calciatore delle Juventus e della Nazionale si racconta: “Mi svegliavo alle 5.30, capii cos’era il lavoro vero. All’inizio avevo una Ford con 250mila km: umile come me. A Euro2016 dopo il gol cercai i miei genitori in tribuna, e prima del rigore contro la Germania ho visto la vita passarmi davanti”.
Giornalista
27 settembre – 08:15 – MILANO
Quale calciatore potrebbe definirsi più “operaio” di chi in fabbrica ci ha lavorato davvero? Emanuele Giaccherini — fedelissimo soldato di Conte trasformato in “Giaccherinho” e perito meccanico ex fabbricante di piste di cemento — conosce bene il significato del termine fatica. E non solo perché in campo faceva della corsa forsennata una delle caratteristiche fondamentali del suo calcio, ma pure per il passato da operaio vero e proprio.
Tutto ebbe inizio così…
“Era il 2000, me lo ricordo bene perché c’era l’Europeo. All’epoca avevo 15 anni: scuola appena finita, giocavo negli Allievi del Bibbiena. Fui io a chiedere al mio “babbo”, operaio, di lavorare. Volevo capire come fosse la fabbrica. Risultato: non lo auguro a nessuno, massacrante. Quell’estate capii cos’è un lavoro vero. Allora mi dedicai allo studio e al calcio. Mi sono diplomato come perito meccanico, un buon titolo”.
La giornata tipo in fabbrica?
“Sveglia alle 5.30 del mattino, ritorno a casa alle 14. Il pomeriggio dormivo ma poi la sera faticavo ad uscire di casa. Nello specifico, costruivo prefabbricati nelle piste di cemento, il peggior ruolo possibile. Preparavo le travi su piste lunghe 120 metri, toglievo il cemento e le armavo con i cavi. Poi una nuova gettata di cemento fresco e via così ogni giorno”.
Poi diventò professionista, pur non avendo il physique du rôle del calciatore medio.
“Devo ringraziare la mia testa e la mia volontà. Fisicamente non ero calciatore, sul piano tecnico ero bravo ma soprattutto sopperivo al fisico con voglia, testa, corsa. Conte però mi ripeteva sempre che ero forte, se no alla Juve non sarei mai arrivato”.
Il ricordo più bello su Conte?
“Juve-Parma, inaugurazione dello Stadium, il mio esordio in bianconero. Antonio mi voleva a tutti i costi nonostante la società non fosse molto propensa. Vincemmo 4-0 ma io non feci una buona partita: Conte mi notò a testa bassa nello spogliatoio, tornai a casa e trovai un suo messaggio: ‘Oggi era difficile, ma so che puoi darmi molto di più’. Mi tranquillizzò”.
Fu così che da Giaccherini la trasformò in “Giaccherinho”?
“Indelebile, quella Nazionale (Euro 2016, ndr) resta nel cuore di tutti. C’era scetticismo, invece abbiamo vinto contro squadre più forti grazie al sacrificio e al ct, che ha costruito un’armata. Mi ha dato tantissimo, Antonio. Le lacrime di Barzagli sono state quelle di tutti gli italiani”.
Lei giocava senza… milza.
“Categoria Allievi, partita di vertice a Sesto Fiorentino. Passano 5’, involontariamente il portiere avversario si scontra con me e col gomito mi colpisce una costola che piegandosi mi fa esplodere la milza. Ma devo aspettare che finisca la partita, così tutto diventa più grave. Mi portano in ospedale, faccio una lastra e svengo. I medici notano del sangue nelle urine e capiscono l’emorragia interna, mi operano d’urgenza. Ho davvero rischiato la vita. Oggi devo ancora fare tre vaccini l’anno”.
Il primo gol di quell’Europeo porta la sua firma. Sensazioni in quel momento?
“Cercai subito i miei genitori in tribuna, abbracciando tutta la squadra. Però è nei 30 secondi di tragitto dal centrocampo al dischetto contro la Germania ai quarti che ho visto la mia vita passarmi davanti: tutti i pianti lontano da casa, le fatiche, le docce fredde e i completini mancanti in Serie C, il mio paese, una nazione intera che ti guarda. Davanti alle 70.000 persone dello stadio, io ero solo. Vedevo soltanto Neuer che piano piano diventava sempre più grosso”.
Ha ripensato anche alla Ford con 250mila km su cui si spostava quando giocava in C?
“Una macchina che sarà sempre con me. Diventai maggiorenne, papà mi lasciò una vecchia Fiesta e la usai altri 5 anni tra Bellaria, Pavia, Forlì, Cesena. Una macchina umile, come me: ‘una Giaccherini’. Mi accompagnò nel percorso più difficile”.
Contro la Germania, ai rigori, sembrava fatta…
“Purtroppo, arrivammo a calciare ad oltranza: noi segnavamo sempre, i tedeschi battevano dopo di noi, con la pressione dell’eliminazione in caso di errore, ma anche loro facevano sempre gol. Poi l’errore di Darmian. E non so cosa sia passato per la testa di Pellé: tutti sbagliano, ma quel gesto a Neuer…”.
Dopo l’Europeo va al Napoli di Sarri: cosa non funzionò?
“Non mi è stato permesso di restituire alla città quanto avrei voluto. Tutto si conclude senza rancore, ma il dispiacere resta. Venivo dal punto più alto della mia carriera, scelsi Napoli per tornare in una big ma Maurizio era un integralista: giocavano solo i suoi e subentravano sempre gli stessi 2-3. Oggi è migliorato, però a me vedeva come vice-Callejon e io con lui c’entravo poco, così chiesi di andare via”.
Anche la storia di come conobbe sua moglie è particolare, più “operaia” che da calciatore.
“Mi trovavo ad un Cesena club, lei era al bar della parrocchia. La vidi per caso e mi balzò subito all’occhio. Chiesi informazioni, mi feci vivo io e dopo tanto corteggiamento… Mi ha fatto sudare, ma col tempo ha capito che non avremmo mai rappresentato l’idea banale del calciatore-velina”.
Oggi è tornato a Talla, il suo paesino?
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“Quelle sono le mie origini e rimarrà sempre casa. Vivo a Firenze, ma a Talla trascorro le estati e appena posso vado a tagliare l’erba: torno operaio, tra gli amici che hanno sognato con me. Sono uno di loro”.
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