Il primo, l’ha dedicato al padre: “Dante”. Il secondo, alla madre: “Netina”. In tutto, ne ha costruiti 16 (fino a oggi, si intende: il numero 17 è già nella sua testa). E sono tutti così: i violini di Pietro De Meo non sono strumenti musicali, sono storie. Sedici violini, sedici storie. Storie umane, di persone, parenti (i genitori, la zia, i nipotini), amici di infanzia e di lavoro, a volte persone lontane oppure conosciute indirettamente (come il violino “Milka” – no, non è il cioccolato, e anche lui ci scherza su – o “Ginevra”). Solo che lui non è un liutaio: «Mai stato. Io sono un macchinista delle ferrovie in pensione».
Un pensionato, nato e cresciuto a Mondovì «quando l’Altipiano aveva le strade sterrate, c’era il “Cinema Italia” e si faceva il bagno nell’Ellero», che 15 anni fa ha iniziato a costruire violini. Violini che suonano in modo straordinario: «Non quando li suono io, si intende! – aggiunge, ridendo -. Anzi, ringrazio i vicini di casa che non hanno mai… avuto qualcosa da dire». Ma lo dicono i musicisti che li hanno provati, e sono tanti. Perfino un grande personaggio del cinema, figlio di una violinista russa di grande fama. E ora tutto questo è finito in un libro.
Si intitola “I miei violini raccontano storie”. Un titolo che non mente. Infatti, non è un libro sui violini: «No, non lo è – ci dice Pietro -. È un libro sulle persone a cui sono dedicati». Il primo, ovviamente, è il padre Dante. In questo capitolo, Pietro inizia a narrare dalla domanda che tutti gli hanno fatto (anche noi, quando lo intervistammo la prima volta, anni fa): come e perché hai cominciato a costruire violini?
Ed è la storia curiosa, di una persona curiosa. A cui i modellini di galeoni non bastavano più (oltre a quelli che aveva in casa, come il Bounty e il Cutty Sark ne stava per acquistare uno nuovo, «con trecento cannoni e dettagli colossali») e ha deciso: «Provo a costruire un violino».
Da dove viene l’idea? «Ero rimasto affascinato da quello strumento quando avevo visto dei violinisti in Ungheria. Così ne avevo comprato uno, da “Merula”: un violino da poche decine di euro “made in China”, il manico si spezzò poco tempo dopo. Avevo capito che suonare non faceva per me». Ma la manualità, quella invece sì: gli indizi, a partire dai galeoni, erano tanti e andavano tutti nella stessa direzione. E così nacque il “Dante”.
Nel libro Pietro mescola, con sapienza artigiana, dettagli da liuteria raffinata (ne citiamo tre su tutti, e solo per brevità: l’odissea della ricerca della “vernice perfetta” tra alcool, olio e… zucchero candito; l’incredibile storia dell’intarsio del violino “Ginevra”, venuto su con un difetto, corretto peggio e… sistemato in modo geniale; e infine la curiosità sul recupero dei legni dalla “foresta che suona” della Val di Fiemme) ad aneddoti di vita vissuta. E il vero cuore del libro sono questi.
Ci sono aneddoti commoventi, come quello del concertino in cui suonarono assieme il “Netina”, il violino dedicato alla mamma (un violino che, tanto per spiegarci, si è classificato al sesto posto, per qualità del suono, a un concorso internazionale con 66 violini costruiti da liutai di tutto il mondo), e il “Philia” dedicato all’amico Gianni (per questo evento è d’obbligo citare i colleghi della redazione di TargatoCN, che hanno avuto un ruolo).
O il “Martin” («con l’accento sulla “à”», precisa Pietro) dedicato al primo collega di lavoro e a un dono speciale. Ci sono quelli al limite dell’incredibile: come il “Milka” dedicato alla violinista Milka Storff Salerno e a Vittorio Salerno, ideatore del film “Stradivari” e fratello del ben più famoso Enrico Maria Salerno (e qui la cronaca si tinge quasi di mistero, c’entra perfino Tolstoj -sì: QUEL Tolstoj), o il divertentissimo aneddoto sull’amico Carlo «che un giorno, mentre giocavamo a fare i “mangiafuoco”… prese fuoco davvero! E io lo spensi con una coperta, come si spegne una candela». E quelli divertenti: come il “Vicentia” per zia Enza, con quella storia incredibile sul giorno del parto.
Altri aneddoti sono… diversi. E parlano di lui (in realtà, tutti parlano di lui), dei lati del suo carattere, della sua voglia di fare, della sua personalità: come il “MonsRegalis”, l’unico violino che è stato “quasi venduto” (quasi: poi ci ha ripensato. «Il prezzo mi sembrava folle… così me lo sono preso indietro. E mi sentivo molto più sereno»), il “Pacem” e il “Sion” che portano messaggi importanti, e il “Ginevra”, sulla cui storia (e la bimba a cui è dedicato) anche lui ha voluto essere delicato, e va bene così.
Dal punto di vista personale, poi ci sono le storie, pardon i violini, “Lino” – per il suocero – e “Catalin” – per i figlioccio, musicista e direttore d’orchestra. E quelli dedicati ai tre nipotini: il “Lorenzo”, il “Pipapù” («In realtà il mio secondo nipote si chiama Giorgio… – racconta Pietro -. Ma mio figlio e la moglie vollero tenere nascosto il nome fino al momento della nascita… solo che io stavo già costruendo il violino, e dovevo incidere il nome sul cartiglio. Così chiesi a Lorenzo, che stava per diventare fratello maggiore, come si sarebbe chiamato il piccolo in arrivo… e lui, che in quel periodo seguiva i cartoni di Winnie The Pooh, rispose: “Pipapù”. E così è stato») e il “Damiano”. Ed è incredibile come De Meo riesca a raccontare parallelamente di nipoti e di violini, facendoti quasi perdere il filo se stia parlando del carattere dei primi o del suono dei secondi.
Perché questa è la verità. Pietro non vuole dirsi un liutaio, anzi ironizza sul suo hobby: «Io scendo nel mio box garage, mi metto a lavorare a un violino, a tagliare il legno… e finisco per fare due ciance con chiunque passa da lì e, incuriosito, mi viene a paralare, a fare domande, a chiedere». Pietro non vuole dirsi uno scrittore (ma scrive maledettamente bene!). Ma sicuramente è tutto il resto. Un ex ferroviere, un figlio, un genero, un marito, padre e nonno, un amico… che racconta storie. Costruendo violini.