di
Laura Siviero
Vincenzo Gastini, architetto, racconta suo padre Marco, protagonista della stagione artistica degli anni ’70: «Amava molto Torino. È sempre stata per lui una città fonte d’ispirazione. E in quegli anni era davvero casa sua»
«Quando mio padre dipingeva, nessuno stava in studio, era un momento sacro. C’erano solo lui e la pittura». Vincenzo Gastini, Cencio, classe 1966, architetto, sposato con Saskia Pellion di Persano, racconta suo padre Marco, protagonista della stagione artistica degli anni ’70 insieme a Zorio, Mainolfi e Griffa. Oggi Cencio progetta giardini e ha un vivaio, con sua moglie a Castagneto Po. Ha appena inaugurato la doppia mostra dedicata a suo padre a Vigone e Torre Pellice dal titolo «Dentro e oltre la pittura» a cura di Francesco Poli e Luca Motto.
Che padre era Marco Gastini?
«Un padre presente, anche se il suo lavoro lo assorbiva completamente. La sua ricerca nella pittura, nell’energia e in tutto ciò che lo appassionava si percepiva anche in casa. Ma, nonostante tutto, per me lui c’era sempre».
Avevate un tempo soltanto vostro?
«Condividevamo, soprattutto quando ero ragazzo, il divertimento di andare a vedere le partite del Toro. Ci univa».
Un’abitudine, un atto, che ancora le torna in mente?
«Tutta la famiglia, con le mie sorelle Marcella e Clelia (mancata qualche anno fa) e i miei, si andava quasi sempre in montagna in valle di Lanzo che è sempre stata fonte di ispirazione e anche di reperimento di materiali, per mio padre. Ci portava a Mombresto una frazione di Pessinetto».
Lei stava a guardarlo mentre lavorava, nello studio?
«No, quando lavorava era un momento sacro: era lui con la pittura non c’era altro, guardava rifletteva, non c’era un pubblico. Negli anni della malattia sono stato più presente, dal 2013 io e l’assistente non lo lasciavamo mai solo, ma era un’altra cosa».
Quella volta che…
«Estate 1989. Ricordo una delle tante gite in montagna insieme a lui. In quell’occasione c’erano anche mia sorella Marcella e alcuni amici. La destinazione era una pietraia ai piedi dell’Uja di Mondrone, in Valle di Lanzo. Mio padre ci caricava gli zaini con barattoli di vernice e, una volta arrivati a destinazione, dipingeva una pietra. Sono ricordi emozionanti per me».
È ancora lì quella pietra?
«Sì, sono stato qualche decennio fa ed era ancora intatta. Sarebbe bello andare a vederla. Si sale dal Pian della Mussa, dal primo rifugio c’è la passeggiata del balcone, poi una pietraia ed è lì».
Qualche sua frase memorabile?
«In una conversazione con Bruno Corà pubblicata sul catalogo della mostra al Kunsthalle di Goppingen (2005) disse: “Mi hanno sempre attratto le cose in bilico, siano queste pensieri, azioni, materiali, segni che stanno per muoversi, cose mai ferme, attrazioni e repulsioni, come in sospensione, in attesa”».
È vero che, da ragazzino, suo padre dipingeva le terrecotte poi le andava a vendere sulle spiagge liguri, con un amico?
«Sinceramente non ricordo delle terrecotte, ma realizzava al mare insieme al suo amico Luca Deabate dei dipinti a olio. Dei paesaggi, che poi vendevano direttamente sul posto, per fare un po’ di vacanza, avranno avuto 20 anni. Lavorava già da giovane».
Un lavoro, un’opera che sente vicina?
«Il sogno respira nell’aire (1988) è un’opera che sento particolarmente vicina, perché ero presente sia durante la sua realizzazione che alla presentazione a San Gimignano. Avevo appena finito il militare non sapevo se iscrivermi all’Università, in quel periodo stavo spesso in studio. Ha più un valore affettivo del momento, che un significato profondo».
Cosa esprime in quel dipinto?
«Lui avrebbe chiesto: tu cosa vedi? Non c’era una ricerca di senso. Era un momento dell’arte in cui si andava oltre».
Qual è l’aspetto migliore di suo padre rimasto a chi l’ha conosciuto?
«Tutti gli amici che vedo ne hanno sempre un bellissimo ricordo: una bella persona, generosa, capitava che donasse le sue opere, come alla fondazione Scroppo o che le scambiasse con altri artisti».
Marco Gastini è nato e vissuto a Torino. Fonte d’ispirazione o rifugio?
«Amava molto Torino. È sempre stata per lui una città fonte d’ispirazione, lo era ancora di più negli anni ’70 e ’80. Torino era casa sua. Ricordo in particolare il periodo di fine secolo scorso, un ricordo che ancora oggi mi trasmette una grande “energia”: quando ero studente universitario al Politecnico e mi dilettavo di fotografia, frequentavo spesso lo studio di mio padre in via Lessolo 19 (mentre non dipingeva). Negli studi accanto al suo c’erano artisti come Gilberto Zorio, Luigi Mainolfi, Giorgio Griffa, tutti circondati da giovani assistenti, oggi affermati artisti come Paolo Grassino, Mimmo Borrelli, Saverio Todaro, Enrico Juliano e Paolo Albertelli. In quegli spazi si respirava davvero energia: ogni giorno si vedevano nascere nuove opere e completarne altre. È stato un periodo bellissimo passato con mio padre. Questa era Torino: gli artisti si frequentavano, si scambiavano idee. Era un momento straordinario».
Era un metodico?
«Non era uno di quegli artisti che dipingono nel cuore della notte. Lui andava a lavorare alle 8.30 tornava a pranzo e rientrava in studio. Oggi i suoi amici sono ancora lì e si sono aggiunti Elisa Sighicelli, Nunzio, Grazia Todaro».
Quali erano, secondo lei, le sue ossessioni creative?
«La pittura. Il fatto che la pittura invade altri spazi, che vada oltre».
Lavorava con dei materiali poco consueti: pietra, rame, piombo, vetro. Erano oggetti che portava anche a casa?
«Ricordo che portava me e i suoi assistenti a recuperare i materiali: ferri da cantieri, pietre dai tetti di montagna, carrube raccolte sotto alberi secolari. Non so esattamente come scegliesse quegli oggetti, ma ogni singolo pezzo sembrava trasmettere qualcosa. Li portava in studio, li osservava a lungo, alcuni li metteva da parte, altri li usava nelle sue opere. E alcuni di quei materiali sono ancora lì».
Che rapporto avevano i suoi genitori?
«Sono sempre stati uniti. Nonostante fossimo circondati in quegli anni da tantissimi amici separati loro reggevano. L’amore era la chiave. Tre figli, lei lavorava a casa, grande cuoca, ha scritto libri sulla cucina. Era una cosa che funzionava, un rapporto normale, di altri tempi».
Un ricordo di famiglia?
«Noi di famiglia andavamo sulle barricate, alle manifestazioni con le bandiere, come una festa, eravamo piccoli. Ricordo il referendum sull’aborto, sul nucleare».
C’è qualcosa che le ha insegnato senza le parole, ma con la sua vita?
«Sì. Se qualcosa merita di essere fatta, merita di essere fatta bene».
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27 luglio 2025 ( modifica il 28 luglio 2025 | 05:30)
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