Un paio di settimane fa dall’Iceberg, l’edificio progettato dall’architetto Mario Cucinella che da quattro anni ospita l’emergenza con pronto soccorso, terapie intensive e sale operatorie, “si sono dimessi tredici infermieri. In un giorno. Questa settimana altrettanti: quattro Oss, gli altri infermieri”, conferma Margherita Napoletano della Cub Sanità, coordinatrice della Rsu del San Raffaele che martedì, dopo un’assemblea itinerante tra l’ingresso dell’ospedale e la direzione sanitaria, ha aperto la procedura di raffreddamento in Prefettura, passaggio obbligato verso uno sciopero. Sì, siamo nell’ospedale fondato da don Verzé, Istituto di ricerca e cura a carattere scientifico acquistato sull’orlo del crac nel 2012 e risanato dal Gruppo San Donato: il più grande privato italiano, che fa da solo quasi il 40% di quel 40% (in valore) di sanità ospedaliera che il Servizio sanitario lombardo appalta alle cliniche accreditate. Sempre accusato il privato, e spesso a ragione, di fare “shopping“ di medici illustri, depauperando la sanità pubblica, con offerte economiche libere dai lacci della burocrazia di Stato.

E però la guerra, che si dovrebbe fare unicamente alle malattie, non si vince ingaggiando solo generali. Specie nel bel mezzo di una crisi delle professioni sanitarie, precipitata dopo la pandemia, in cui soprattutto gli infermieri sono rari come l’oro. In Italia, che già partiva da un rapporto uno a uno rispetto ai tre per dottore di Francia e Germania, la carenza d’infermieri è ancor più drammatica di quella dei medici, e più lontana da una soluzione: i dati preliminari sugli ultimi test d’accesso ai corsi di laurea in Infermieristica raccontano un calo ulteriore dall’anno scorso e un tracollo in Lombardia, con quasi settecento posti vuoti su circa duemilacento. Va detto che dall’Irccs non confermano al Giorno lo scenario della fuga di massa: i numeri del 2025, con 153 infermieri dimissionari in nove mesi, sembrano in linea con i 214 che se ne sono andati l’anno scorso, su un organico di circa 1.200, e le posizioni vuote con qualche sforzo vengono coperte.

Ma questo è il San Raffaele, la punta di diamante della sanità privata lombarda: per fare un paragone col pubblico, è come se in un anno rassegnassero le dimissioni un sesto degli infermieri in forza al Niguarda, primo ospedale d’Italia secondo Newsweek che su ordine della Regione fa bandi in condominio con l’Asst della Valtellina, sfruttando la sua attrattività per ingaggiare camici che lavoreranno parte del tempo lassù. Il problema, spiegano al Giorno lavoratori singoli e sindacati, è il contratto: dal 2020 anche al San Raffaele, che all’epoca di don Verzé applicava il contratto collettivo nazionale del comparto sanità (infermieri, tecnici, ausiliari), vige il contratto Aiop, quello della sanità privata. Che non viene rinnovato da oltre sette anni (da 13 addirittura per le Rsa), mentre il Ccln pubblico 2022-24 avviato all’ok finale in un paio di settimane prevede aumenti tra i 150 e i 172 euro lordi al mese e oltre 300 euro aggiuntivi da quest’anno, ad esempio, per chi lavora al pronto soccorso. Già adesso il delta per un infermiere è tra il 10 e il 15% rispetto al contratto Aiop: “Un mio conoscente che è andato a lavorare nel pubblico all’ingresso aveva 200 euro in più in busta”, racconta un infermiere.

Le associazioni dei privati che lavorano per la sanità pubblica addebitano lo stallo degli stipendi al braccio di ferro con lo Stato per la ridefinizione dei rimborsi: Aiop, Aisi, Arlev, Federanisp, UaP e Confepi sono appena riuscite a far annullare dal Tar del Lazio il nuovo nomenclatore tariffario, benché con efficacia differita di un anno. Nel mezzo ci sono i lavoratori: “Da tredici anni chiediamo un contratto unico per la sanità pubblica e privata, il lavoro è lo stesso e devono esserlo anche i diritti. In questo momento il contratto di sanità pubblica è due rinnovi avanti rispetto a quello Aiop”, conferma Napoletano, secondo la quale, però, “non tutti gli infermieri che si dimettono vanno a lavorare nel pubblico”. E il problema al San Raffaele, insiste, non è solo economico: “Le persone si sono stancate di essere trattate come pedine, ad esempio trasferite d’imperio dagli ambulatori nei reparti infischiandosene se abbiano problemi di salute, figli o genitori da accudire”.

In una lettera inviata anche in Regione e al ministro della Salute Orazio Schillaci, la Rsu racconta “le condizioni insopportabili in cui l’amministrazione ha ridotto l’Irccs, un tempo di eccellenza”, denunciando un “ricorso generalizzato agli appalti a cooperative, società di professionisti e anche a singole partite Iva per sostituire assenze improvvise” nei reparti, “con gravi risvolti sulla continuità assistenziale e la sicurezza”, oltre a “un ricorso selvaggio a straordinari, gettoni, reperibilità oltre i limiti previsti dalla legge”, e ancora forniture “non più puntuali di materiali e dispositivi medici”, “carenza di manutenzione, pulizia e igiene a causa di rinnovi al ribasso degli appalti”. I sindacati protestano anche per le limitazioni al Centro prelievi, “che ora accetta al massimo cento pazienti” del servizio sanitario nazionale “al giorno, oltre alle prenotazioni attraverso il sito, comunque in numero limitato”, e per lo stop, da questo mese, delle prenotazioni in regime di Ssn attraverso il Cup interno, a meno che la prescrizione non sia firmata da un medico del San Raffaele all’interno di un percorso di cura: “Gli sportelli dedicati sono stati chiusi ma la gente non capisce, diventa aggressiva”, denuncia un lavoratore.

Su quest’ultimo punto, però, il San Raffaele sta facendo quel che dal Welfare regionale chiedono da anni, spesso inascoltati, agli ospedali privati e anche a quelli pubblici: far passare tutte le prenotazioni di visite ed esami col Servizio sanitario nazionale attraverso il call center regionale, per garantire equità, ordine, controlli e magari aggredire il mostro delle liste d’attesa.