Nel caso della bambina palestinese non c’è l’illusione che il cinema possa renderla immortale. Al contrario, è già una voce lontana. Il film diretto da Kaouther Ben Hania, non cerca di renderla eterna attraverso la riproduzione oggettiva della realtà, ma di catturarla, fermarla per tenerla in vita proprio lì, sull’istante. Non si tratta tanto di filmare la morte, quanto il suo fantasma: la foto di Hind Rajab, l’acqua del mare. La vita solo attraversata e mai vissuta.

Sta proprio qui la struggente impotenza del film evidente anche nell’immagine del percorso satellitare dell’ambulanza per andare a salvarla. Forse le ombre della morte sono presenti – non in maniera speculare ma come tracce di una fine imminente – in maniera non dissimile a quelle dello strepitoso A House of Dynamite, anche questo in concorso all’82° Mostra del Cinema di Venezia. Kathryn Bigelow, al pari di Kaouther Ben Hania, racchiude il film prevalentemente all’interno di una stanza.

In entrambi i casi c’è una corsa contro il tempo. Il missile, Hind Rajab. Poi, come in La zona d’interesse di Jonathan Glazer (tra i produttori eseutivi di La voce di Hind Rajab), la morte è nel fuori-campo. Non c’è immagine, flashback. Quel file audio irrompe dentro le immagini, le rende dipendenti. È questa la principale traccia che resta, sia nei video in rete sia nel film. Lo stesso file che, estratto dal suo isolamento di reportage e inserito dentro il film, provoca la scossa. Equivale alla stessa ipnosi davanti alle immagini dei campi di sterminio in Polonia nel fluviale Shoah. I volontari della Mezzaluna Rossa non sono solo gli attori attorno ai quali viene costruita la storia di Hind Rajab. Sono anche come i testimoni, i sopravvissuti del documentario di Claude Lanzmann che possono raccontare questa storia. Il modo di rappresentarla ha lo stesso impatto del cinema sull’Olocausto.

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