di
Irene Soave
I maschi refrattari a una relazione hanno creato questo sentimento squisitamente femminile. Sono evitanti, legnosi, incomprensibili anche a se stessi
Questo testo è tratto da Big Bubble, la nuova newsletter del Corriere firmata da Irene Soave: è gratuita, arriva la domenica mattina e ci si iscrive qui
I maschi non telefonano, figuriamoci (nessuno più telefona, e il Financial Times di qualche giorno fa scriveva che i più giovani sono talmente disabituati a telefonare che nemmeno dicono «Pronto?» al fisso quando suona, alzano e stanno lì in silenzio, ad aspettare che si sbilanci l’altro. Possibile metafora ambosessi).
Non telefonano, non scrivono messaggi, non mandano nemmeno più i messaggi un po’ porcini delle 23:30 («Dove sei?») che nell’adolescenza delle millennial venivano definiti impropriamente «booty call». Semmai se scrivi tu rispondono, ma sempre con alcune ore di ritardo (calcolato?). I loro messaggi sono radi e afasici; o brillantissimi, ma in quel caso scordatelo di vederli, perché come ormai sanno tutti la brillantezza via chat sta a dire che la passione fisica non arriverà mai. Non ascoltano vocali. Non incidono vocali. Non danno appuntamenti, non prendono appuntamenti. Non vogliono la monogamia. Non vogliono una relazione. Vogliono una relazione, ma non ce la fanno. Vogliono una relazione, ma (segue brontolio sconnesso in psicologhese). Hanno l’attaccamento disorganizzato. Hanno il deficit di accudimento come il Papa di Nanni Moretti. Si rifugiano nel no contact. Avevamo detto stasera? Perdonami, ho fatto casino, ho padel. Ti richiamo io.
È la possibile sintesi di un qualsiasi resoconto sentimentale tra amiche in cerca tra i trenta e i quarant’anni ma forse pure sui venti, ma forse pure a cinquanta: il punto di vista è rigorosamente femminile, e l’oggetto dell’analisi, oltre che ahitutte del desiderio, sono i maschi, ormai descritti sempre, da tutte, come gente che non ce la fa.
In molte, quindi, hanno condiviso e screenshottato e inviato alle amiche e ai maschi delle loro vite un lungo articolo pubblicato lunedì sul New York Times. Si intitola, più o meno: «Il problema, se ti piacciono gli uomini». The Trouble with Wanting Men. E parla di un concetto che si è fatto strada nei dipartimenti universitari di Gender Studies. Lo ha coniato nel 2019 dal ricercatore americano Asa Seresin, che vi sta dedicando un saggio molto atteso (in arrivo in Italia nel 2027). Si chiama: eteropessimismo. O in versione più morbida, come la mette giù il New York Times, eterofatalismo.
Sentimento squisitamente femminile, l’eteropessimismo è la presa d’atto che i maschi si continua a desiderarli e a volerli accanto, non si pensa di cercarsi una partner femmina né di tirare giù la cler; però avendo acquisito la dolorosa certezza che non ce la fanno. E che non è nemmeno in senso stretto colpa loro: li disegnano così, cioè, nel lessico delle scienze sociali che ha colonizzato le conversazioni degli ultimi anni, sono stati socializzati in questo modo. Da maschi. Evitanti, legnosi, incomprensibili anche a se stessi. Non come ci pensiamo noi, cinture nere di terapia, socializzate poverette a volere il legame, capaci di parlare di emozioni e di guardarci dentro, prive ormai di ansie, di narcisismi e di ambiguità (…).
Cosa ce ne facciamo del nostro desiderio, si chiede l’autrice di The Problem with Wanting Men, Jean Garnett, quarantenne appena divorziata? (con un’eco della fantastica Monica Scattini di Parenti Serpenti: «tutto questo amore a chi lo dooo»?!).
L’articolo è scritto in prima persona, scelta rischiosa quando si parla di fenomeni collettivi: c’è sempre qualcuno pronto a rispondere al «non ci chiamano» con «parla per te». Inizia con l’arrivo a un primo appuntamento.
L’uomo sta già aspettando l’autrice Jean Garnett e la desidera «in modo evidente», il che le piace (e a chi non). Vanno a casa insieme, nel sesso è «un po’ timido, o un po’ fuori allenamento», insomma lei sembra dargli un sei (chissà se lui se ne accorge?). Dopo ben una settimana le scrive: ti sto cercando poco perché in questo periodo sono pieno di ansia.
Pieno di ansia? Questo indispone l’autrice del pezzo: «Un uomo dovrebbe volermi con urgenza, o non volermi affatto». Se ne sfoga a cena con tre amiche. Ognuna ha il suo aneddoto che le conferma che «gli uomini veri, che sanno reggere la vita normale e sfide tipo uscire di casa per fare sesso, non ci sono più».
Quello che per l’ansia ha fatto ghosting (cioè ha smesso di farsi vivo) dopo settimane di messaggi ardenti, l’amante che ha atteso che l’autrice del pezzo divorziasse per poi dirle «non sono bravo nelle relazioni», l’avvocato che dopo tre appuntamenti risponde a ogni messaggio con un ritardo di almeno cinque ore. E insomma tutta la casistica solita. Ma da quando gli uomini sono diventati così?
Risposta del pezzo: da quando non è stato più accettabile che fossero dei predatori sessuali, da quando non basta più ubriacarsi e smanacciarci, eccetera: da quando cioè il sesso non è più un terreno dove esercitare il loro potere. La versione del sesso in cui comandavano non è più in auge: in questa nuova, dove tocca ascoltarsi e negoziare, sarebbero a disagio.
Essere a disagio. Una mia amica, regina della diplomazia, dice sempre che per non fare una cosa che non le va, o per rimettere al loro posto persone che l’hanno indisposta dice, semplicemente: «sono un po’ a disagio». Frase magica, consente quasi sempre di defilarsi restando pulite o di ottenere scuse e spiegazioni. E così allo stesso modo il disagio, l’ansia, l’introversione dei poveri maschi contemporanei detronizzati sarebbero anche, nella teoria dell’eteropessimismo, un utile viatico a defilarsi: in un altro termine tecnico, weaponized incompetence. Incompetenza strumentalizzata.
Come in cucina: quante volte accade che un compito domestico – lavare i piatti, sbrinare il frigo, caricare la lavastoviglie – un partner maschio lo faccia talmente male che non solo non è più un aiuto, ma la prossima volta non glielo si chiederà?
Be’, varrebbe anche in amore: l’incapacità strumentale, scrive Jean Garnett, è per i maschi assai comoda perché costringe le femmine a fare tutto loro. Soprattutto l’hermeneutic labor, il «lavoro di interpretazione»: uno dei tanti tipi di lavoro invisibile che nelle relazioni spetterebbe soprattutto alle donne, e cioè quello di capire cosa intende quell’altro con i suoi messaggi sibillini e rari. Vorrà una relazione con me? Chiederselo, rispondere di conseguenza, darsi una linea di condotta, magari aprire con lui una conversazione: non solo ricaccia nel trito schema «maschio fuggitivo, donna che attende», ma è tutto lavoro che quello là non fa e tu sì. Ennesimo fronte dello sfruttamento femminile.
E pilastro dell’eteropessimismo: allargando lo sguardo agli appuntamenti, chi ce lo fa fare, si chiede la donna eteropessimista, se nel corteggiamento facciamo tutto noi (hermeneutic labor). Se nel mantenere sana e vivace una relazione che per miracolo si è avviata facciamo tutto noi (emotional labor, concetto coniato dalla sociologa Arlie Hochschild nel 1983 parlando di lavoro e poi mutuato anche per il lavoro emotivo in una coppia: significa istruire le conversazioni chiave per cui una storia si definisce o va avanti, occuparsi della temperatura emotiva della coppia, comperare completini per ravvivare la libido, alcune teoriche inseriscono in questa voce persino il sesso coniugale). Se nel sesso sanno spesso poco del desiderio femminile (come sembrano dire molte delle storie raccolte dall’attenta Greta Sclaunich nella sua newsletter SeGreta). Se nei lavori di casa, nemmeno a dirlo, facciamo tutto noi (persino nei Paesi scandinavi le ore settimanali di lavoro domestico delle donne sono di più di quelle dei loro partner, se sono etero). Infine si sono moltiplicati i saggi come questo divulgativo dell’economista Ginevra Bersani Franceschetti che mostra per esempio il costo sociale dei reati commessi soprattutto da maschi, cioè quasi tutti. Nei casi peggiori, riflette l’eteropessimismo, a rischio per una donna che sta con un uomo non sono solo autostima e tempo libero, indipendenza finanziaria e casa in ordine, ma la stessa incolumità fisica. Insomma, chi ce lo fa fare?
Le risposte che arrivano nell’articolo del New York Times sono un po’ esangui: dei maschi mi piace l’odore e spesso i genitali, ammette l’autrice, e un po’ è tutto lì. Ricorda vagamente le teorie opposte degli incel: le donne sono detestabili, ci caschiamo solo ogni tanto perché sono carine. Le donne sono la vera ragione per cui le relazioni non ingranano, dicono gli incel: interessate solo ai soldi, a uomini alti, a uomini belli in senso canonico, vanno cioè dietro al 20 per cento dei maschi disponibili e ignorano gli altri 80. La colpa, se non ci sono più coppie decenti, è tutta delle donne. Eccetera.
Questa descrizione non somiglia alle eteropessimiste del pezzo di Jean Garnett, che però non fanno comunque tanta simpatia: voler essere desiderate, per esempio, è uno dei sentimenti contro cui i femminismi di ogni epoca hanno combattuto, considerando che il rischio è di ridursi un po’ a deliziosi oggetti. E soluzioni rapide, a parte microchippare tutti gli uomini che si conosce per cambiarne l’indole, o la socializzazione, anche l’autrice del pezzo ammette che non ce ne sono. Se non le solite due.
La prima è quella che indicavano già le nonne: disinteressarsene un po’, aspettarsi un po’ meno, trovarsi qualcosa da fare. Nel lunghissimo articolo del New York Times c’è un paragrafo in cui l’autrice chiama la zia, e la zia le dice. E poi c’è la soluzione che l’epoca sembra chiedere a gran voce ogni volta che si parla di amori: rinegoziare, collettivamente, e anche a mezzo articoli come questo, che cos’è una coppia, che cosa vogliamo (desiderare o essere desiderati o la congiuntura astrale in cui entrambe le cose si verificano insieme? E può accadere a comando?) e cosa chiediamo all’altro, ma anche cosa possiamo offrire.
Per dire, dei maschi valutati al tavolo delle eterofemministe qualcuno è da buttare. Ma quello gentile, «un po’ timido» e con un po’ d’ansia, per esempio, cioè un essere umano medio, cosa ci ha fatto di male?
28 luglio 2025 ( modifica il 28 luglio 2025 | 11:44)
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