Sulle pagine di un giornale arabo online ieri Shahd al Hamouri, docente di diritto internazionale alla Kent University, esortava i palestinesi a sfruttare a loro vantaggio le attuali condizioni che vedono Israele, a causa della sua offensiva militare che ha raso al suolo Gaza e ucciso decine di migliaia di civili, in un isolamento internazionale senza precedenti, anche se resta forte dell’appoggio degli Stati uniti. «L’Assemblea generale dell’Onu – ha notato – ha mostrato tre principali fazioni sulla questione palestinese: 1. La fazione sionista-americana che sostiene il proseguimento della guerra. 2. La fazione araba ed europea, che cerca di rilanciare la soluzione dei Due Stati, ma all’interno di una visione che propone la creazione di uno Stato palestinese con sovranità limitata e soggetto all’egemonia israeliana. 3. Le fazioni dell’Aja e di Bogotà che adottano un discorso basato sull’impegno a contrastare l’apartheid e a isolare i regimi oppressivi». Per al Hamouri il momento è fatidico: «Prendiamo in mano il nostro destino. I nostri veri e unici alleati nel progetto di liberazione dei palestinesi sono i paesi che hanno provato l’amarezza del colonialismo, come il Sudafrica, la Colombia, Cuba, la Malesia e altri paesi che si battono per la verità e la giustizia».
Al Hamouri esorta il suo popolo a imboccare la strada giusta. Ma già si lavora per vanificare le opportunità viste dalla docente. Benyamin Netanyahu domani incontra Donald Trump con l’intento di emendare (o affossare) il piano in 21 punti elaborato dall’inviato Usa Steve Witkoff che, segnalava ieri con preoccupazione una parte della stampa israeliana, potrebbe portare alla creazione di uno Stato palestinese. Uno Stato senza sovranità, come paventa Shahd al Hamouri, ma in ogni caso una entità che Netanyahu e quasi tutti i partiti israeliani non vogliono.
Il governo israeliano ha già dovuto ingoiare il boccone amaro dello stop all’annessione della Cisgiordania allo Stato ebraico. Trump ha promesso agli alleati arabi che la impedirà. Netanyahu, perciò, farà di tutto per emendare la proposta Usa che, almeno a parole, vuole mettere fine alla guerra e pianificare il futuro di Gaza (secondo i criteri americani naturalmente) e che circola in queste ore. Quel piano, teme il primo ministro israeliano, senza prevederlo esplicitamente pone le condizioni per la nascita di uno staterello palestinese. «Il piano prevede addirittura che gli Stati uniti avviino un dialogo con Israele e i palestinesi per concordare un orizzonte politico per una coesistenza pacifica», avverte il Times of Israel. Netanyahu ha ripetuto all’infinito il suo «no» allo Stato di Palestina, eppure rischia di arrivare alle elezioni politiche del prossimo anno con l’indipendenza palestinese nell’agenda delle relazioni con Usa ed Europa.
Proprio il Times of Israel ha pubblicato una bozza dei 21 punti che Trump avrebbe discusso a inizio settimana con alcuni Stati arabi e musulmani. Sembra segnare una svolta rispetto alle precedenti posizioni della Casa Bianca. I pilastri del piano prevedono il rilascio di tutti gli ostaggi a Gaza entro 48 ore, la fine immediata dell’offensiva israeliana, il ritiro graduale delle forze di occupazione israeliane e il disarmo di Hamas. Ai membri del movimento islamico offre un’amnistia se accetteranno di convivere con Israele e di abbandonare le armi, ipotesi che i leader del gruppo escludono sino a quando non cesserà l’occupazione di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme. Centrale l’invito ai palestinesi a restare a Gaza, con la promessa di un massiccio piano di ricostruzione. Solo pochi mesi fa Trump aveva proposto il trasferimento, cioè la pulizia etnica, degli abitanti di Gaza, raccogliendo il favore del governo Netanyahu. Tra i vari punti ci sono anche un corpo di polizia palestinese formato con addestramento internazionale e la Striscia sarà affidata a un governo di tecnocrati promosso da Usa, arabi ed europei. Un punto centrale è il numero 20: l’impegno verso un percorso di statualità palestinese, legato ai progressi nelle riforme dell’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen. Una prospettiva che non piace all’Anp e che incontra la netta opposizione di Netanyahu. Intanto Hamas fa sapere di non aver ricevuto alcuna proposta ufficiale di cessate il fuoco.
A Gaza non c’è tempo né modo di seguire gli sviluppi diplomatici. Le esplosioni delle bombe e delle cannonate delle forze israeliane che avanzano all’interno di Gaza City non danno tregua. Al Jazeera riferisce di almeno 91 palestinesi uccisi ieri, di cui 45 nella città capoluogo dalla quale sarebbero sfollati 750 mila abitanti, secondo Israele. Tra le vittime ci sono nove persone appartenenti alla stessa famiglia a Nuseirat. I carri armati inoltre avanzano di nuovo nell’area dell’ospedale Shifa. «Il bombardamento intorno a noi non si è fermato un solo istante», ha riferito il suo direttore, Mohammad Abu Salmiya. Un palestinese, Motassem Baker, su Facebook ha denunciato che l’esercito israeliano ha bombardato la sua famiglia, uccidendo diversi membri, perché si era rifiutata di dare vita a una milizia mercenaria, simile a quella guidata da Yasser Abu Shabab a Rafah.