I lavoratori non dovrebbero mai dimenticare che anche ciò che accade al di fuori dell’ufficio può avere conseguenze negative. Se in ufficio ci sono i canoni della lealtà, buona fede e correttezza da rispettare, all’esterno le azioni violente o i comportamenti moralmente criticabili possono anche portare alla massima sanzione disciplinare. Lo ha ricordato la Corte di Cassazione con una sentenza di poco tempo fa, la n. 24100, che ribadisce un principio giuridico fondamentale:

una condanna penale, anche se per fatti compiuti al di fuori dell’orario e del luogo di lavoro, può essere una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento.

Conseguentemente, il dipendente non può utilmente opporsi all’espulsione dall’ufficio e, anzi, deve accettare la decisione del datore di lavoro.

Reati accertati nel processo penale e licenziamento

Con sentenza definitiva, un operaio alle dipendenze di una società era stato condannato a 8 mesi di reclusione per reati commessi in veste di ultras nell’ambito delle tifoserie calcistiche. Appreso l’esito del processo, il datore di lavoro lo aveva licenziato per ragioni disciplinari e morali.

Dopo un primo grado non sfavorevole al lavoratore, l’impugnazione del licenziamento fu respinta dal giudice d’appello, che escluse la tardività della contestazione disciplinare mossa dalla società.

In particolare, a inchiodare il dipendente alle sue responsabilità furono le ingiurie accertate e gli atti oltraggiosi e istigatori alla violenza commessi ai danni delle forze dell’ordine (nel corso di quasi 2 anni e sullo sfondo di eventi sportivi).

Il giudice territoriale confermò la legittimità del recesso per giustificato motivo soggettivo, ritenendo venuta meno, in azienda, la fiducia nei valori etici e morali del lavoratore.

Tanto più che, nel caso concreto, entrò in gioco anche una disposizione del Ccnl di riferimento – che prevede espressamente la sanzione espulsiva a seguito di condanna a pena detentiva con sentenza passata in giudicato.

In breve, la condotta extralavorativa impedì di considerare l’ultras idoneo a relazionarsi pacificamente con il resto del team di lavoro.

La disputa legale proseguì in Cassazione, con l’ormai ex dipendente che impugnò la decisione di secondo grado sostenendo che il giudice d’appello avesse commesso una serie di errori nella valutazione dei fatti e delle norme applicabili.

Il diritto di licenziare dopo la sentenza penale definitiva

Confermando la correttezza logico-giuridica della pronuncia di secondo grado, i giudici di piazza Cavour hanno stabilito che il datore aveva tutto il diritto di mandare via un dipendente resosi responsabile di fatti di rilievo penale.

E aveva diritto di farlo aspettando l’esito del procedimento penale, con il cosiddetto passaggio in giudicato della sentenza.

Infatti la Cassazione ha sottolineato che:

  • il termine per valutare se l’azienda ha agito tempestivamente decorre dal momento in cui la condanna diventa definitiva (passa in giudicato) e non dalla data di commissione del reato o dal momento di conoscenza dei fatti;
  • solo da quel momento il datore prende conoscenza certa e definitiva della colpa penale del dipendente, ed è allora che può (e deve, se vuole) reagire con l’azione disciplinare.

In altre parole, il datore non perde il diritto di licenziare per un’asserita tardività, se non si muove subito dopo il fatto o dopo un provvedimento non definitivo.

Come accennato sopra, proprio sulla tempistica della sanzione si fondava l’impugnazione del dipendente che, come detto, è stata respinta anche dai giudici di piazza Cavour.

Che cosa cambia per i lavoratori condannati

La sentenza 24100/2025 della Cassazione ha valenza di avvertimento per la generalità dei rapporti di lavoro. Infatti un reato anche extra-lavorativo, una volta che sia stato accertato da una definitiva sentenza di condanna penale, può legittimare il licenziamento disciplinare.

La Cassazione ha infatti spiegato che entrano in gioco considerazioni di ambito etico e caratteriale, che ricadono negativamente sul dipendente autore dell’illecito fuori dall’ufficio.

Il licenziamento non scatta come una diretta conseguenza della violazione penale, ma a causa del venir meno del rapporto fiduciario, che costituisce il perno del contratto di lavoro.

Basti pensare, ad esempio, al caso di un dipendente condannato per truffa o frode fiscale: anche se i fatti sono avvenuti fuori dall’ufficio, incidono in modo diretto sull’affidabilità e correttezza della persona.

Oppure si pensi a un lavoratore condannato per atti di violenza o lesioni personali, anche ai danni della moglie: la sua capacità di relazionarsi con colleghi, clienti e superiori risulterebbe gravemente compromessa, giustificando l’espulsione.

Insomma, se è vero che sfera della privacy e delle attività private e sfera lavorativa sono su due piani separati, è altrettanto vero che talvolta ciò che accade nell’una può influenzare l’altra, perché in ballo c’è sempre il fattore fiducia che lega datore e dipendente.

Il rapporto è instaurato, e prosegue nel corso del tempo, sempre tenendo conto della valutazione complessiva delle attitudini e dell’integrità morale del lavoratore, a svolgere le mansioni previste nel suo contratto.