Per ottenere un indennizzo, non basta l’errore medico. I genitori devono dimostrare le conseguenze negative sulla loro vita e che la donna avrebbe interrotto la gravidanza.
Affrontare la notizia di una grave malformazione del proprio figlio è una delle prove più difficili per un genitore. Ma quando questa scoperta avviene solo al momento del parto, a causa di un errore diagnostico del medico che ha impedito una scelta consapevole durante la gravidanza, al dolore si aggiunge un complesso percorso legale per ottenere il risarcimento del danno. Una sentenza del Tribunale di Latina (n. 2275 del 26 ottobre 2023) fa luce su questo delicato ambito, stabilendo con chiarezza i paletti e gli oneri probatori che gravano sui genitori. Il principio è netto: il danno da “nascita indesiderata” non è automatico. Non basta dimostrare la negligenza del sanitario; è necessario provare in modo concreto le “negative ricadute esistenziali” subite e, soprattutto, che la donna, se correttamente informata, avrebbe legalmente interrotto la gravidanza.
Il danno non è automatico, ma va allegato e provato
Il primo e fondamentale punto chiarito dalla sentenza è la natura del danno risarcibile. Non si tratta di un danno “in re ipsa”, una locuzione latina che indica un danno la cui esistenza è implicita nell’evento stesso. Al contrario, quello da nascita indesiderata è un “danno conseguenza”. Questo significa che non è la nascita in sé a costituire il danno, ma le conseguenze pregiudizievoli che da essa scaturiscono nella vita dei genitori. Pertanto, spetta a chi agisce in giudizio l’onere della prova: i genitori devono allegare, cioè descrivere dettagliatamente, e dimostrare in modo specifico in che modo la loro esistenza sia stata negativamente stravolta dall’impossibilità di esercitare il proprio diritto a una procreazione cosciente e responsabile.
La lesione della libertà di autodeterminazione
Il diritto che viene leso in questi casi è la libertà di autodeterminazione della coppia, e in particolare della donna, in merito a una scelta tanto intima e personale. La sentenza, operando una lettura costituzionalmente orientata della Legge 194 del 1978, ricollega questo diritto a una visione complessiva del bene salute, inteso non solo come assenza di malattia, ma come pieno “benessere psicofisico della persona”. L’errore medico, impedendo alla donna di conoscere le reali condizioni del feto, la priva della possibilità di compiere una scelta informata, violando il suo diritto a non dar seguito a una gestazione che, in presenza di determinate condizioni, avrebbe potuto decidere di non portare a termine.
L’onere della prova e la liquidazione equitativa
Come possono i genitori fornire la prova di un danno così intimo e personale? Il Tribunale di Latina specifica che tale prova può essere fornita anche attraverso “presunzioni semplici”, ovvero tramite ragionamenti logici che, partendo da fatti noti e provati, consentono di risalire a un fatto ignoto (in questo caso, le ricadute esistenziali). Una volta provato il danno, la sua quantificazione economica, o “liquidazione”, non può che avvenire “in via equitativa”. Poiché il diritto leso non ha una natura patrimoniale, è impossibile calcolare un ristoro esatto. Sarà quindi il giudice, in base alla gravità delle conseguenze dimostrate, a stabilire una somma che possa rappresentare un equo indennizzo per la sofferenza e lo stravolgimento della vita dei genitori.
La prima prova fondamentale: il pericolo per la salute della donna
Per poter chiedere il risarcimento del danno, i genitori devono prima di tutto dimostrare che, se la diagnosi fosse stata corretta, sarebbero esistite le condizioni legali per un’interruzione volontaria di gravidanza. La legge di riferimento è l’articolo 6, lettera b), della Legge 194, che consente l’aborto terapeutico dopo i primi 90 giorni quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, o quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che possano determinare un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica. Di conseguenza, la donna deve provare che la conoscenza delle anomalie del feto avrebbe generato in lei uno “stato patologico” (come una grave forma di ansia, depressione o un crollo psicologico) tale da mettere in pericolo la sua salute.
La seconda prova: la volontà di interrompere la gravidanza
Dimostrare che esistevano le condizioni di legge, però, non è sufficiente. La donna deve superare un secondo, e forse più complesso, scoglio probatorio: deve convincere il giudice che, se fosse stata tempestivamente informata delle malformazioni fetali, avrebbe effettivamente esercitato la facoltà di interrompere la gravidanza. Si tratta di provare un’intenzione, una scelta che non è mai stata compiuta. Anche in questo caso, si può ricorrere a presunzioni semplici, basate sullo stile di vita della coppia, sulle loro convinzioni personali, sulla loro situazione economica e familiare, e su ogni altro elemento che possa rendere credibile e verosimile che la scelta sarebbe stata quella abortiva. La sentenza del Tribunale di Latina, in definitiva, traccia un percorso legale rigoroso, che tutela il diritto al risarcimento ma lo ancora a prove concrete, evitando automatismi e ponendo al centro la necessità di dimostrare sia la sussistenza delle condizioni legali, sia la reale volontà della donna di avvalersene.