Pubblicato sull’American Journal of Obstetrics and Gynecology Global Reports, uno studio del Policlinico Gemelli rivela le fragilità nascoste delle pazienti: disagio psicologico, violenza e insicurezza alimentare. Tina Pasciuto illustra i dati al Sir e racconta come la medicina possa diventare ascolto, accoglienza e cambiamento


Foto Calvarese/SIR

Nel cuore del Policlinico universitario Agostino Gemelli Irccs, dove la medicina incontra ogni giorno storie di vita, è nato uno studio che ha acceso i riflettori su un tema delicato e urgente: il disagio sociopsicologico, la violenza e l’insicurezza alimentare tra le donne che accedono ai servizi ginecologici. Pubblicato sul prestigioso American Journal of Obstetrics and Gynecology Global Reports, il lavoro, promosso da Antonia Carla Testa, associata di Ginecologia e ostetricia all’Università Cattolica e responsabile Uoc di Ginecologia ambulatoriale preventiva presso il Gemelli, rappresenta il primo contributo scientifico italiano sul tema. Attraverso la collaborazione con le Acli e il progetto “Porte sociali”, lo studio ha raccolto oltre 400 testimonianze, rivelando che più di una donna su tre (il 37%) soffre di disagio psicosociale, il 33% ha subito una forma di violenza (psicologica, verbale, fisica o sessuale), e il 14% vive in condizioni di insicurezza alimentare. A guidarci tra risultati, implicazioni e prospettive dello studio è Tina Pasciuto (nella foto), ingegnere e ricercatore di Statistica medica, curatrice dell’analisi dei dati e della stesura del manoscritto.

Tina Pasciuto

Dottoressa Pasciuto, come è nata l’idea di indagare il disagio sociopsicologico tra le pazienti ginecologiche? 
L’idea è nata dalla collaborazione tra il Policlinico Gemelli e le volontarie Acli di Roma che da anni offrono supporto nei nostri ambulatori ginecologici. Volevamo andare oltre l’assistenza immediata e indagare in modo sistematico i bisogni psicosociali delle pazienti per comprenderne le cause profonde e individuare strategie di intervento efficaci e durature. Abbiamo quindi ideato uno studio multidisciplinare con un questionario che integrasse variabili cliniche, economiche e socio-relazionali. Le risposte anonime delle pazienti hanno restituito un quadro autentico del vissuto femminile di chi frequenta ambulatori come il nostro, cogliendo sfumature spesso trascurate.

Quali dati l’hanno sorpresa di più tra quelli emersi?

Scoprire che il 37% delle donne vive un disagio psicologico e sociale è stato sconvolgente.

Dietro questi numeri c’è una storia, una sofferenza, un bisogno non sempre visibile. Mi ha turbato anche il dato sulla violenza: una donna su tre ha dichiarato di avere subito qualche forma di abuso: fisico (22,1%), psicologico (55,1%), verbale (42,6%) e sessuale (8,1%). Una realtà che interpella tutti noi, soprattutto in ambito sanitario, dove spesso queste esperienze restano silenziose. Inoltre, il 14% vive in condizioni di insicurezza alimentare, un indicatore che ci parla di vulnerabilità economica e sociale. Mi ha invece emozionato la resilienza delle donne: il 71% ha cambiato le proprie priorità dopo la malattia ma, nonostante tutto, il livello medio di soddisfazione personale è 8 su 10, dimostrazione che,

anche nella vulnerabilità, le donne sanno trovare forza, senso e futuro.

In che modo la violenza subita incide sulla salute ginecologica e psicologica delle pazienti? 
Abbiamo analizzato il rischio violenza considerando fattori psicologici, socioeconomici e relazionali: livello di istruzione, condizione lavorativa, dinamiche familiari, stile di vita. Tra i fattori di rischio indipendenti – cioè non condizionati da altri elementi – è emersa la presenza di patologie ginecologiche benigne. L’associazione tra violenza e disagio psicologico è forte, ma non possiamo stabilire un nesso causale. Occorre approfondire:

è la violenza a generare il disagio, o è il disagio ad esporre alla violenza?

Come si manifesta l’insicurezza alimentare?
È fortemente legata alla fragilità economica. Si manifesta come impossibilità, almeno una volta l’anno, di acquistare cibo sufficiente e nutriente. Un indicatore di vulnerabilità che spesso resta invisibile, ma incide profondamente sul benessere complessivo delle pazienti.

Quali strategie vengono adottate per accogliere e supportare le pazienti in difficoltà?
Serve un approccio integrato che consideri la persona nella sua interezza. La pubblicazione dello studio su una rivista medica di alto valore scientifico dimostra che anche la medicina sta riconoscendo l’importanza di una visione più ampia della salute femminile.

Se questo approccio olistico si diffonderà, potremo migliorare la qualità dell’accoglienza, dell’assistenza e della cura.

Che ruolo ha la presenza delle volontarie Acli nel migliorare l’esperienza delle pazienti, e come immagina l’evoluzione del rapporto tra medicina e volontariato? 
Le volontarie Acli svolgono un ruolo prezioso: accolgono, orientano e ascoltano con attenzione e umanità. Intercettano fragilità invisibili offrendo supporto, e rappresentano una risorsa fondamentale per umanizzare la medicina. Immagino un futuro in cui il rapporto tra medicina e volontariato sia sempre più integrato, strutturato e riconosciuto anche a livello istituzionale per costruire un modello di cura centrato sulla persona.

Quali sono i prossimi passi per dare seguito a questa indagine?
Abbiamo già avviato l’ambulatorio “Porte sociali”, uno spazio settimanale dedicato alle consulenze gratuite offerte dalle volontarie Acli. Le pazienti ricevono supporto pratico su documenti, diritti e agevolazioni previste in base a patologia, condizione sociale, stato di anzianità o altri fattori di vulnerabilità.

È un ponte tra medicina, ricerca e giustizia sociale che può generare un cambiamento culturale più ampio.

Quale messaggio vorrebbe trasmettere alle donne che vivono situazioni di fragilità? 
Che non sono sole. Esistono spazi e persone pronte ad accoglierle, ascoltarle e sostenerle. La ricerca ha il compito di dare voce al dolore e trasformarlo in consapevolezza e azione. La fragilità non è debolezza, ma può generare forza, solidarietà e cambiamento.

Che consiglio darebbe invece ai giovani medici e ricercatori che vogliono affrontare tematiche sociali nella pratica clinica? 
Direi loro: “Non abbiate paura di guardare oltre il sintomo. La medicina non è solo diagnosi e terapia: è anche ascolto e relazione. Coltivate la curiosità; ponete domande scomode; non sottovalutate il valore della collaborazione interdisciplinare: lavorare con sociologi, psicologi, volontari, assistenti sociali arricchisce la visione clinica e apre strade nuove alla ricerca”. Ogni cambiamento nasce da piccoli gesti e da uno sguardo diverso. I giovani possono guidare questa trasformazione.

 

 

 

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