«È la storia di una famiglia che si intreccia a quella della musica». A raccontarla è il documentario «Le Macabre Rock Club» di Luca Busso, figlio dei fondatori dello storico locale di Bra, chiuso nel 2008. Stasera verrà proiettato a Torino al cinema Classico – dove sarà presente l’autore con Stefano Sardo, Alberto Campo, Luca Morino, Max Casacci e Madaski – e a I Portici di Fossano. E ancora al Multilanghe di Dogliani da venerdì (sarà presente Busso) al 6 ottobre. Sabato, Busso tornerà per la proiezione all’Impero di Bra.

Luca come è nato questo lavoro?

«Dal materiale raccolto in tanti anni di attività del Macabre. Ogni tanto facevo riprese, come alla festa per i 25 anni del locale. Nel 2008 una serie di interviste in occasione della serata di chiusura. L’ultimo pezzo suonato è stato di Ezio Bosso e Roy Paci. Un anno e mezzo fa le altre interviste. Ma c’è così tanta roba che avrei potuto andare avanti ancora 10 anni. Mi ci è voluto del tempo per creare la distanza da quella storia che ha poi preso forma grazie a Stefano Sardo co-produttore del documentario, anche lui braidese, frequentatore del locale con la sua band: i Mambassa».

Doloroso pensare a quell’epoca?

«Lo è stato con la chiusura, ma ha rappresentato una fase della mia vita. Per mia mamma Dorina invece è stata tutta la sua vita».

Il documentario.

«Si parte dagli anni ’70 del funky, poi nasce il rock club negli ’80 e si segue quella che è la storia della musica indipendente italiana. Da Torino gli Africa Unite, dalla scena fiorentina i Diaframma, fino ai Subsonica, un po’ il punto di arrivo rispetto alla scena torinese».

E i nostrani Marlene Kuntz.

«Si sono incontrati proprio a Le Macabre, come raccontano nel documentario. Il nostro locale era di stimolo ai giovani musicisti che qui trovavano un pubblico che li sapeva ascoltare. Arrivava gente da tutta la provincia. All’epoca c’era anche il Tuxedo, ma era a Torino. A Le Macabre invece ci arrivavi a piedi».

A cosa è più legato di questo lavoro?

«L’intervista che feci con la mia telecamerina, anni fa, a Vinicio Capossela in concerto nelle Langhe».

L’eccezionalità della musica di quel periodo.

«La scena indipendente italiana che stava in piedi da sola senza aver bisogno di major o mainstream. Aveva un suo piccolo mercato, le sue fanzine, i suoi locali, le band. Oggi è un po’ più difficile».

Perché quel locale a Bra?

«Intuizione. Suonavamo un po’ tutti, non essendoci altro da fare e poi perché il magazzino musicale Merula di Cherasco ci forniva gli strumenti. Quando abbiamo iniziato a leggere le fanzine, tipo Rockerilla e scoperto che c’era gente a cui piaceva la stessa musica che piaceva a noi, ci siano inseriti in quella che era la new wave degli anni ’80. Bra come Parigi, come Londra. Volevamo quello».

Una curiosità?

«Molti artisti li ospitavamo a casa nostra. Nel film Federico Fiumani dei Diaframma ricorda “Ho dormito in una mansarda”».

Quando è nato Le Macabre?

«Nel 1972 da un’invenzione dei miei genitori. Mio padre faceva l’operaio e amava andare al bar, mia madre ad un certo punto gli disse “compriamo il bar”. Detto fatto. Accanto c’era un ristorante che in seguito mio padre ha trasformato in discoteca. O meglio nella celebre “grotta” costruita molto artigianalmente. A mia madre non piacevano gli specchi, perché secondo lei sapevano di night club. Entrambi volevano fare qualcosa di diverso. In quel periodo le discoteche evocavano sempre altri luoghi. Dove evadere. Nel 2008 la chiusura. Di quel locale non esiste più nulla. Raso al suolo con il vecchio palazzo».

Luca Busso cosa fa oggi?

«Vivo a Milano e faccio l’autore televisivo, realizzando programmi tv come Collegio, MasterChef e Pechino Express».

Il palco di quel locale ha portato fortuna ad altri due registi braidesi.

«Sì uno è proprio Stefano Sardo, ex Mambassa, ora sceneggiatore, regista e autore di serie. Vive a Roma come Francesco Amato, regista della serie tv “Imma Tataranni. Sostituto procuratore”».

Ha nostalgie?

«Io sono stato bene, oggi non ce la farei più ad andare in un locale fino alle 5 del mattino. Per mia mamma è stata la sua vita, per me un’esperienza che mi ha anche permesso di dedicare tempo allo studio. Ma riconosco che è stato qualcosa di importante. Il documentario è un modo di raccontare un posto eccezionale».