Da un po’ di anni a questa parte il nome di Paolo Strippoli è associato a un genere particolare che il nostro cinema ha sempre esplorato poco: l’horror. È successo perché Strippoli, pugliese d’origine e romano d’adozione, ha girato due film, uno insieme a Roberto De Feo (A classic horror story) e un altro in solitaria (Piove), che sono riusciti a raccontare molte delle paure e delle inquietudini del mondo di oggi senza ricorrere per forza ai classici mostri che sbucano da sotto il letto. Ne La valle dei sorrisi, presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia, Strippoli ha scelto di fare un passo in più: ragionare su cosa accadrebbe se riuscissimo a liberarci dal dolore che ci fa tanto male. Immaginando un ragazzo che, con il potere dell’abbraccio, è in grado di estirpare il dolore che proviamo dentro di noi Strippoli ha suggerito, un po’ come ha fatto Byung-chul Han nel suo saggio La società senza dolore, che una persona che non soffre smette di essere una persona e diventa un guscio vuoto. E non c’era registro migliore dell’horror per raccontarlo, considerando che, per Paolo Strippoli, «il cinema non deve insegnare ma essere uno spunto di riflessione da cui uno può prendere quello che vuole. Il cinema, dopotutto, serve anche solo a far passare due ore gradevoli a qualcuno che ha voglia di svagarsi un po’».
Che bambino era Paolo Strippoli nella sua Corato?
«Molto felice. Al punto che, arrivato alle scuole medie, mentre i miei amici iniziavano a flirtare con le compagne, io volevo ancora giocare come se il tempo fosse rimasto sempre lo stesso. Mentre tutto intorno a me si muoveva e cambiava, io volevo stare a casa a giocare alla Playstation con il mio migliore amico e a fare le nottate guardando i film in cameretta. Questo ha portato un po’ a isolarmi, e a rifugiarmi dentro il cinema per trovare un senso a tutto».
Cos’era il cinema per lei?
«Una passione che ho sempre avuto e che, durante l’adolescenza, è culminata con la fascinazione per l’horror considerando che, a quell’età, sei più disposto a spaventarti rispetto a prima. Andando avanti ho capito che era il modo migliore per crescere ed esorcizzare certi traumi, trovando il coraggio di viverli anziché nasconderli sotto al tappeto».
Di cosa aveva paura da bambino?
«Ero spaventato dall’idea che il corpo si trasformasse con il passare del tempo. L’idea di perdere il controllo del proprio corpo è diventata una sorta di ossessione espressa dalla mia fascinazione per il body horror, che in Italia è ancora difficilissimo da fare. Mentre film come The Substance si sono concentrati sulla visione femminile noto che, purtroppo, il corpo maschile non si è ancora liberato di certi paradigmi del passato: l’attivismo sul maschile non ha raggiunto quello femminile, ed è un gran peccato».