Da ex stella del calcio a rider di Molinari alla mitica sfida Europa-Usa, Gianfranco racconta la sua nuova vita: “Vialli mi ha fatto scoprire il golf, è stato subito amore. La coppa vinta? Come lo scudetto a Napoli”
Giornalista
1 ottobre 2025 (modifica alle 08:12) – MILANO
Gianfranco Zola ha vinto lo scudetto con il Napoli, coppe in serie con Parma e Chelsea, è arrivato secondo a un mondiale, è un idolo in Italia e in Inghilterra. Ma quello che ha fatto la settima scorsa lo ha reso felice ed emozionato come quando era un ragazzino su un campo spelacchiato in Sardegna, o come quando ha festeggiato uno dei successi della sua carriera. Da domenica Zola ha una coppa in più da mettere in salotto, la Ryder Cup di golf, la sfida tra Europa e Usa che ogni due anni diventa l’avvenimento sportivo più importante del mondo. Lui era nel Team Europe, vestito come i giocatori, dentro la squadra esattamente come i giocatori. Il suo ruolo ufficiale era guidare il cart di Chicco Molinari, poi si è dato da fare in mille modi, accompagnando le mogli in campo, parlando con i giocatori, aiutando a fare gruppo.
A che cosa possiamo paragonare l’emozione di vincere la Ryder?
“È come la coppa del Mondo. Certo, nello scudetto a Napoli ero protagonista, però il paragone a livello di emozione ci sta. L’esperienza è stata meravigliosa, anche perché io sono sinceramente un appassionato del golf, mi piace. Di conseguenza, passare una settimana così è stato veramente un tuffo indietro nel tempo. Stessa gioia, stesse emozioni”.
Perché era a New York nella squadra europea?
“Mi ha chiamato Francesco Molinari e mi ha chiesto se volevo fargli da driver per il cart. Pensavo fosse uno scherzo… Devo essere sincero, Francesco è un amico, ma è chiaro che è andato anche oltre l’immaginabile”.
In questa settimana si sono creati nuovi rapporti di amicizia?
“Qualcuno lo conoscevo già bene, per esempio Alex Noren, con altri ci eravamo già incontrati. Ma quando vivi un’esperienza così intensa per una settimana, è chiaro che tutto si rafforza”.
Un clima paragonabile a quello di una squadra di calcio?
“Assolutamente sì. Ancora oggi quando mi capita di incontrami con ex compagni del Napoli o del Parma è come se il tempo non fosse mai passato: cominciamo subito a scherzare e a divertirci, sarà lo stesso con tutto il gruppo di New York”.
A proposito di New York. Il pubblico ha decisamente esagerato, con insulti di stampo… calcistico.
“Innanzitutto bisogna dire che i giocatori americani si sono comportati in maniera signorile, non ho visto niente di scorretto. Certi, i tifosi hanno esagerato. A New York forse sono abituati così, ma il golf è diverso. Qualcuno è venuto a Bethpage troppo carico e poi ha trovato un modo sbagliato di scaricare le frustrazioni con insulti e aggressioni rivolte soprattutto a McIlroy, il più forte. La loro era paura”.
E lui ha risposto alla grande.
“Perché è il più grande di tutti, è stato fantastico, ha risposto da signore e da campione, così come Shane Lowry che giocava con lui. Sono stati straordinari. Hanno giocato benissimo e nello stesso tempo hanno messo al loro posto quei tifosi che erano andati oltre”.
Lei era vestito come tutta la squadra con le uniformi ufficiali create da Loro Piana. Uno dei vice capitani, Josè Maria Olazabal, ha fatto vedere che dentro c’era la silhouette di Severiano Ballesteros, scomparso troppo presto e nume tutelare del golf europeo. Ma l’avevate tutti?
“No, se l’è fatta fare lui”.
E lei chi metterebbe sulla maglietta accanto al cuore, fra chi non c’è più? Maradona, Vialli, Riva?
“Sono tre persone importantissime per me. Ma ci aggiungerei mio padre, a cui devo tutto. Poi chiaramente Gigi ha significato molto, è stato un simbolo della Sardegna. Diego per noi bambini che sognavamo di giocare calcio era ciò che oggi è McIlroy per chi gioca a golf, il massimo, il migliore, il sogno da raggiungere. Ho sentito dire a Tommy Fleetwood, supercampione anche lui, quanto fosse importante sentire un apprezzamento da parte di Rory”.
“Fondamentale nella mia vita per mille ragioni, siamo stati insieme al Chelsea ed è lui che mi ha fatto scoprire il golf. Era il 1996 e mi ero appena trasferito a Londra, mi ha invitato fare due tiri, ma non volevo e gli ho detto di no. Per fortuna ha insistito”.
“Una mezza flappa, ma è stato amore immediato”.
“Tantissimo, almeno una o due volte a settimana. Ma a me piace moltissimo anche praticare e cerco di farlo sempre. Quando mi chiedono che cosa mi manca più del calcio, tutti pensano che io dica l’andare a giocare a San Siro, o Wembley, o affrontare l’Arsenal fuori casa. In realtà la cosa che mi manca di più è la settimana, la preparazione all’evento, la continua ricerca di particolari che mi facessero fare qualcosa in più. Ecco, il golf ha preso un po’ questo posto”.
L’ex tennista Andy Murray ha detto qualche giorno fa che pratica golf tutti i giorni perché vuole qualificarsi al British Open nel 2017. Ha detto che ha bisogno di obiettivi
“Ha ragione, gli obiettivi servono. Io ora sono 2 di handicap e voglio diventare 0, poi vorrò essere + 2, poi ancora meglio. Nel golf sto cercando di mantenere la stessa filosofia che avevo nel calcio: cercare di essere ogni giorno essere un po’ più bravo di quello che ero il giorno prima. Raggiunto un obiettivo devi immediatamente mettertene un altro, sennò poi ti adagi, diventi abitudinario e a me queste cose non piacciono”.
Chi sono i suoi compagni di golf?
“Mi piace giocare con Francesco Molinari, sono molto amico anche di Peppo Canonica e Marcello Santi. Chicco è divertente e spiritoso, anche se so che da fuori può sembrare un introverso. Poi c’è un gruppo di 8-10 persone con cui facciamo regolarmente viaggi, ogni 2-3 mesi partiamo, andiamo a giocare, ci divertiamo. Fra gli altri ci sono anche Roberto Di Matteo e Carlo Cudicini”.
A un bambino consiglierebbe di provare il golf o di dedicarsi al calcio?
“Io ai bambini dico di provare tutto. Perché la varietà aiuta il corpo e il cervello. Abbiamo l’esempio di Sinner, no? Lui faceva tennis, faceva sci, giocava anche a calcio. Esperienze che gli hanno insegnato ad essere più padrone del suo corpo. Io giocavo a basket, poi per l’altezza mi hanno consigliato di fare altro, ho fatto sollevamento pesi per irrobustirmi, karate per imparare a cadere e sviluppare agilità, mi mandavano a nuotare. Tutto per essere un calciatore migliore”.
A New York c’era Trump. L’ha visto?
“Certo, eravamo accanto a lui il venerdì pomeriggio, anche se non ci abbiamo parlato. Però io quasi quasi guardavo più Michael Jordan, un mito. Avrei fatto volentieri una foto, anche non avrei fatto una grande figura accanto a lui, la differenza di altezza sarebbe stata imbarazzante”.
E a proposito di grandi personaggi. Ha incontrato la Regina Elisabetta.
“Sì, quando mi ha consegnato l’onorificenza di Member of The British Empire. Con mia moglie abbiamo studiato l’etichetta per due giorni, come ci si deve rivolgere alla Regina, cosa si deve fare qua, cosa là… Eravamo molto tesi. Poi lei è arrivata e con la sua vocina ha detto: “Oh, the footballer! Mi conosceva!”.
“Un paio di incontri a cerimonie di beneficenza, mi piace molto. Invece ho un ricordo particolare di un’altra famiglia reale, quando allenavo in Qatar. Un giorno arrivò l’erede e volle giocare con noi dello staff che facevamo delle sfide di calcio a 7. Ha giocato attaccante vicino a me, però ero più bravo io…”.
Lei infatti è stato anche allenatore. Ha imparato qualcosa da Luke Donald, capitano dell’Europa in Ryder?
“Un grandissimo comunicatore, lui e tutto il suo staff di vice capitani sono molto bravi a trasmettere il suo pensiero. Capace di sdrammatizzare le tensioni, abbiamo passato una settimana a farci gli scherzi e a ridere insieme, un clima cha ha aiutato a riscaldare l’anima. La vita è così, bisogna scherzare e non darsi troppo importanza, va troppo veloce per prenderla troppo sul serio”.
Un lavoro paragonabile a quello di un allenatore di calcio?
“Sì, perché il suo lavoro non è di una settimana, ma sono due anni che si impegna, che chiama i giocatori, che organizza, che viaggia per vedere prima tutto, da mesi manda una newsletter a tutte le persone coinvolte per tenerli aggiornati. È stato bravissimo a tessere i fili. Ma quando parlo di capacità di comunicazione non intendo solo le parole che vengono dette, ma anche il modo”.
Sarà ancora Donald il capitano tra due anni?
“Chissà, lui in questi giorni ha sempre glissato sulla questione. Lo sa solo lui, bisognerebbe chiederlo a lui. O a sua moglie… è un ruolo che richiede tanto tempo e tanto impegno anche per la famiglia.”
Girano molti video. In un uno la squadra europea dedica un coro al presidente degi Stati Uniti agitando la coppa: “Trump ci stai guardando?”.
“Divertente, il modo giusto per prendersi un po’ in giro. McIlroy aveva ricevuto un messaggio di congratulazioni dal presidente e ha pensato di mandargli video. E Trump ha anche risposto pubblicamente ripetendo le sue congratulazioni. È il clima giusto: sfottò ma nei limiti del buon gusto e dello scherzo”.
In un altro video, fra i mille che girano sulle vostre festa, fate gli auguri di buon compleanno a Frankie Fleetwood, il figlio di Tommy.
“È un ragazzino straordinario. Tifa Everton come il papà e scherzando gli avevo detto che se fosse passato al Chelsea gli avrei fatto un bel regalo. Lui non ha voluto nemmeno pensarci, no no no! il regalo fatemelo domenica vincendo la coppa, ha detto”.
Anche lei è papà. Tre figli
“E sono orgoglioso di loro. Martina è campionessa di ju jitsu, terza al mondiale di tre anni fa, è cintura nera ed è molto appassionata. Andrea ci ha provato con il calcio, ha giocato nelle giovanili del Cagliari e del West Ham, oggi è maestro di golf, insegna in una Academy a Londra. Samuele invece sta studiando musica, è un compositore. Sono orgoglioso, non per quello che fanno, ma perché sono tre bravi ragazzi”.
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