Negli ultimi anni le app per monitorare le mestruazioni sono diventate compagne inseparabili per milioni di persone. Più di una mera un’agenda digitale dove segnare l’inizio e la fine del ciclo, queste piattaforme aiutano a prevedere il ciclo, a tenere traccia dei sintomi, a conoscere i giorni fertili. Accompagnare le utenti nella comprensione della propria salute riproduttiva, indicando i giorni più fertili, suggerendo abitudini per alleviare i sintomi premestruali e persino monitorando cambiamenti di umore o disturbi fisici ricorrenti. Promettono consapevolezza, controllo, autonomia. Ma dietro l’interfaccia rassicurante c’è un lato oscuro che gli utenti spesso non vedono: i dati che inseriamo, informazioni intime sulla nostra salute, finiscono in reti di raccolta, analisi e commercio, in un mercato in cui la logica non è la cura, ma il profitto, aprendo scenari che mettono in discussione la nostra fiducia.

Femtech: un mercato miliardario, una miniera di dati

Il boom delle app per il ciclo mestruale va letto dentro un fenomeno più ampio: il settore del Femtech, ovvero l’industria tecnologica focalizzata sul benessere e sulla salute femminile. Nato per rispondere a una storica mancanza di attenzione alla medicina di genere, questo comparto ha conosciuto una crescita straordinaria. Secondo le previsioni, supererà i 60 miliardi di dollari entro il 2027, con una parte rilevantissima dei profitti proveniente proprio dal monitoraggio digitale delle mestruazioni. Le applicazioni che dominano il mercato globale, con oltre 250 milioni di download sono Flo, Clue e Period Tracker. L’interesse delle persone e il successo commerciale sono evidenti, ma, purtroppo, poggiano su un meccanismo fragile: se il servizio è gratuito, la vera moneta di scambio sono i dati sensibili. Le app diventano così non solo strumenti di benessere, ma anche ingranaggi in un mercato invisibile fatto di pubblicità mirata, broker di dati e piattaforme pubblicitarie globali. Molte persone pensano che le app servano unicamente a ricordare le date delle mestruazioni. In realtà, queste piattaforme incoraggiano a registrare una quantità sorprendente di dettagli: dall’uso dei contraccettivi ai rapporti sessuali, dalle variazioni di umore al livello di energia durante la giornata, fino ai farmaci assunti o al desiderio di una gravidanza. Sono informazioni che, prese insieme, compongono un profilo estremamente dettagliato della vita quotidiana di chi le utilizza e hanno un valore altissimo perché toccano uno degli ambiti più delicati della vita, cioè la riproduzione. Come spiegano i ricercatori del Minderoo Centre for Technology and Democracy dell’Università di Cambridge, questo tipo di informazioni da analizzare, confezionare e rivendere per fini pubblicitari o commerciali rappresentano una vera “miniera d’oro per le big tech”

Il rischio della sorveglianza riproduttiva

Il pericolo più grave riguarda l’uso dei dati sul ciclo mestruale da parte di governi o forze dell’ordine. Negli Stati Uniti, dopo l’annullamento della sentenza Roe vs Wade, molte donne hanno iniziato a cancellare le app per paura che i dati possano essere usati in tribunale come prove di aborti illegali. Un semplice ritardo registrato potrebbe trasformarsi in un indizio da indagare. La situazione non riguarda solo l’America. In diversi paesi politicamente instabili o repressivi, dove l’aborto resta criminalizzato, o in contesti dove la libertà riproduttiva è sotto attacco, i dati archiviati su cloud possono essere sequestrati e utilizzati contro le stesse persone che li hanno generati. Non è fantascienza, ma una prospettiva concreta.

Privacy, tra promesse e contraddizioni

Il tema della privacy digitale non è nuovo. Già nel 2019, Privacy International aveva denunciato che più della metà delle app analizzate, precisamente il 63%, trasferiva automaticamente informazioni a Facebook, spesso senza che le utenti ne fossero consapevoli. Negli anni successivi, sotto la pressione dell’opinione pubblica e dei media, alcune piattaforme hanno ridotto il numero di tracker pubblicitari integrati e molte hanno introdotto la cosiddetta modalità anonima, che permette di usare l’app senza fornire dati identificativi come nome o indirizzo email. Ricordate il caso di Flo Health? Nel 2021 un’inchiesta del Wall Street Journal rivelò che l’app, una delle più diffuse al mondo, comunicava a Facebook se un’utente aveva il ciclo o stava cercando una gravidanza, senza consenso esplicito. La vicenda sfociò in una class action contro Meta, Flo, Google e la società Flurry. Tutte le aziende tranne Meta scelsero accordi extragiudiziali, mentre Meta fu portata a processo e recentemente condannata per aver acquistato da Flo, senza il consenso delle utenti, informazioni sulla salute riproduttiva di milioni di donne a scopo di marketing. Eppure i problemi restano. Un’indagine condotta dal King’s College di Londra su venti applicazioni per fertilità e ciclo ha mostrato che tutte condividevano informazioni personali con inserzionisti terzi, e che solo in meno della metà dei casi questo veniva dichiarato apertamente. In Europa, il GDPR (General Data Protection Regulation) classifica i dati mestruali come “categorie speciali”, alla pari di quelli genetici o etnici, ma la realtà dimostra che la regolamentazione non basta perché le falle restano, soprattutto quando le app vengono sviluppate da società che operano al di fuori dei confini europei.

Oltre il marketing: i rischi sul lavoro e nell’identità

Le app di monitoraggio del ciclo non sono solo strumenti di benessere: rivelano abitudini, desideri, vulnerabilità. Per questo, il potenziale abuso dei dati che offrono non si limita al marketing o alle campagne pubblicitarie mirate. Alcuni datori di lavoro hanno incluso queste piattaforme nei pacchetti di welfare aziendale, un gesto apparentemente di attenzione al benessere, che, in realtà, apre a scenari molto più inquietanti: le aziende potrebbero usare questi strumenti per capire se una dipendente sta pianificando una gravidanza, influenzando così decisioni su assunzioni o promozioni. Esiste poi un altro livello di rischio, meno discusso ma altrettanto importante. La semplice presenza di un’app di questo tipo sul telefono può rivelare informazioni sull’identità di genere di una persona, con conseguenze delicate per chi non si sente al sicuro nel contesto in cui vive. Per le persone trans, in particolare, l’uso di un’app per il ciclo può diventare un indicatore indesiderato, esponendole a discriminazioni o violenze. Ciò dimostra che il problema non è solo tecnologico, ma profondamente sociale e culturale. Eppure, la loro popolarità cresce anche perché la salute mestruale resta una delle aree meno studiate della medicina. Strumenti digitali che promettono risposte rapide diventano irresistibili, soprattutto per chi convive con condizioni come endometriosi o PCOS, che richiedono anni per una diagnosi.

Quale futuro? Possibili alternative e nuovi scenari

Non tutte le notizie sono negative. Alcune applicazioni hanno ridotto il numero di tracker pubblicitari e migliorato la trasparenza delle policy. L’introduzione della modalità anonima è un passo importante, così come le app che archiviano i dati solo in locale e non nel cloud. Tuttavia, sono molti a sottolineare che queste misure restano insufficienti se non accompagnate da una regolamentazione più severa e da un’applicazione concreta delle norme già esistenti. Quindi, la domanda di fondo resta: possiamo fidarci di piattaforme che basano i loro profitti sulla circolazione dei nostri dati sanitari più intimi? Il consiglio degli esperti è chiaro: scegliere solo app che non archiviano i dati nel cloud e diffidare di quelle gratuite che promettono molto senza chiedere nulla in cambio. C’è anche chi immagina alternative più radicali come app supportate dai sistemi sanitari nazionali, progettate per mettere al centro la salute pubblica e non il profitto. Una soluzione che potrebbe restituire fiducia e ridurre i rischi legati al mercato dei dati, offrendo alle persone strumenti sicuri senza costringerle a cedere la propria intimità in cambio di servizi apparentemente gratuiti. Insomma, la domanda se possiamo o no fidarci delle app per il ciclo non ha una risposta semplice. L’unica certezza è che posta in gioco non è solo la pubblicità mirata, ma il diritto alla privacy digitale e, in alcuni casi, alla stessa libertà riproduttiva.