Non si vede all’orizzonte una via d’uscita dalla guerra in Ucraina. Lo stallo attuale si può riassumere in una battuta amara: Putin ha deluso Trump, e quest’ultimo ha deluso tutti quelli che avevano creduto in una pace rapida. Abbiamo poche certezze, o quasi-certezze, mi azzardo a elencarne alcune: Putin ha sprecato l’occasione offerta da Trump perché preferisce continuare la guerra; sceglie l’alleanza con la Cina voltando le spalle ad una riconciliazione-disgelo con l’America e l’Europa; accetta di pagare il prezzo altissimo di un riarmo tedesco (in prospettiva il suo errore geopolitico più grave, a mio avviso). Sono constatazioni gravi, allarmanti, ma è meglio guardare la realtà in faccia. Soprattutto gli europei – visto che per gli americani questa Russia è una minaccia più remota – devono ragionare sul futuro partendo da qui: c’è un imperialismo russo alle porte, un vicino ingombrante e prepotente, bisogna trarne le conseguenze e regolarsi.

Un elemento fondamentale per elaborare gli scenari europei riguarda il futuro della leadership russa. Neanche Putin è eterno. Chi e cosa verrà dopo di lui? Quale tipo di successione si sta preparando a Mosca, quali sono gli attori da tenere d’occhio? Ho trovato una serie di risposte precise, documentate, preziose, nell’analisi dell’esperto russo Mikhail Zygar. L’ho citato altre volte perché per me è un autore di riferimento, vi ricordo di chi si tratta. Giornalista e saggista, autore di libri importanti come All the Kremlin’s Men, War and Punishment, in esilio e condannato in contumacia, Zygar collabora con Der Spiegel e il New York Times. Ha appena curato per il think tank Atlantic Council un rapporto molto approfondito sul sistema di potere di Putin, la nomenclatura di cui si circonda e con cui governa la Russia, la natura del suo regime e gli scenari della successione. È un lavoro davvero pregevole, una miniera di informazioni, una piccola enciclopedia portatile per capire come la Russia viene diretta e quale potrebbe essere il suo futuro. La considero come una delle letture più preziose di questa estate. Qui sotto vi propongo una sintesi del rapporto di Zygar intitolato The Next Generation: Russia’s Future Rulers, che ho ricevuto tramite la newsletter Substack. Per chi voglia approfondire, la versione integrale si trova sul sito dell’Atlantic Council oppure qui



















































Eccovi la sintesi di Russia Tomorrow: The Next Generation, Mikhail Zygar (Atlantic Council, luglio 2025).

Introduzione: ricambio senza transizione

Un processo di ricambio generazionale guidato dall’alto sta trasformando l’élite russa. Vladimir Putin — 72 anni, saldo al potere e convinto della propria insostituibilità — non sta preparando la sua uscita di scena, ma sta rimodellando la classe dirigente per garantirsi continuità, controllo e lealtà. I suoi più fidati luogotenenti, in gran parte ultrasettantenni, vengono lentamente messi da parte, mentre al loro posto emergono figure più giovani: figli, cugini, generi, protetti e guardie del corpo, cresciuti all’interno del sistema e pronti a ereditarne logiche, stili e impunità. È un potere che sembra voler istituzionalizzare il nepotismo, consolidando una sorta di feudalesimo burocratico in cui i ruoli si trasmettono per sangue, contiguità e fiducia personale, non per merito o rappresentanza popolare.

Questa aristocrazia di nuova generazione non porta con sé un programma politico autonomo o un progetto di riforma. È fatta di tecnocrati obbedienti, “principi” d’apparato, amministratori fedeli, manager integrati nell’economia di guerra, e figure-chiave dell’apparato securitario. Non è, dunque, una transizione: è una perpetuazione del sistema — e della persona che lo incarna.

Le figlie del presidente
Maria Vorontsova e Katerina Tikhonova, figlie di Putin e della sua ex moglie Lyudmila, per anni furono un tabù pubblico. Il presidente ha sempre avversato qualunque domanda sul loro conto, arrivando a chiamarle in modo sprezzante «quelle donne» in una conferenza stampa. Eppure, le loro identità e il loro peso reale erano un segreto di Pulcinella per l’Occidente, tanto da essere entrambe sanzionate dagli Stati Uniti dopo l’invasione dell’Ucraina nel 2022. Negli ultimi due anni il copione è cambiato: Vorontsova ha rilasciato la sua prima grande intervista, costruendo un profilo pubblico da scienziata-imprenditrice, a capo di un importante gruppo medico privato finanziato dagli amici del presidente. Tikhonova è invece emersa come una vera «centrale» di potere: dirige la fondazione scientifica Innopraktika, sovvenzionata dall’entourage del Cremlino, ed è circondata da una rete in espansione di alti funzionari e imprenditori che devono alla sua protezione la loro ascesa. Il messaggio è chiaro: le figlie non sono più «segreto di Stato». Sono soggetti politici in proprio, pronte a occupare la scena pubblica.

Il «Kushner russo»
Tra i protetti di Tikhonova spicca Kirill Dmitriev, capo del Fondo Russo per gli Investimenti Diretti (RDIF), da poco nominato inviato speciale del presidente per gli investimenti e la cooperazione economica internazionale. Nato a Kiev nel 1975, cresciuto e formato negli Stati Uniti (Stanford e Harvard), già banchiere a Goldman Sachs e McKinsey, Dmitriev è l’archetipo dell’élite post-sovietica: globalizzata, fluida nelle reti internazionali, ma totalmente integrata nella macchina del Cremlino. Il suo matrimonio con Natalia Popova, stretta collaboratrice di Tikhonova, lo lega organicamente al cerchio familiare putiniano. Sotto sanzioni occidentali, l’RDIF ha riposizionato la propria attività verso il Sud globale, consolidando rapporti con l’Arabia Saudita. Proprio a partire da queste reti, Dmitriev ha costruito un canale privilegiato con Jared Kushner (genero di Donald Trump), contribuendo a organizzare la telefonata Putin-Trump e i colloqui USA-Russia di Riyad nel febbraio 2025. Al tavolo dei negoziati, seduto accanto a Lavrov e Ushakov, Dmitriev ha incarnato la nuova generazione di mediatori del Cremlino, più intraprendente, meno timorosa e con ambizioni da protagonista nella politica estera. Ambizioni che, però, si scontrano con l’intoccabilità degli ultimi dinosauri del ministero degli Esteri.

La cugina, il Welfare di guerra e la Difesa
Anna Tsivileva, cugina di Putin, è oggi una delle donne più potenti di Russia. Nel 2012, insieme al marito Sergey Tsivilev (ex militare), ha acquisito la società mineraria Kolmar, in un’operazione poco trasparente che molti considerano un regalo del cerchio presidenziale. La coppia si è rapidamente arricchita: nel 2018 Sergey è stato nominato governatore della regione di Kemerovo, mentre Anna ha scalato l’economia «parastatale», gestendo accessi diretti al presidente e consolidando il proprio ruolo come partner junior dell’oligarca Gennady Timchenko, per poi emanciparsene. Con lo scoppio della guerra, Putin crea la fondazione statale «Difensori della Patria» per gestire i fondi (e il potere) legati ai reduci, alle famiglie dei caduti e alla rete dei combattenti, inclusi i mercenari della Divisione Wagner. Tsivileva ne diventa la direttrice, trasferendone poi il ruolo — e il potere finanziario — nel 2024 direttamente al ministero della Difesa, dove è nominata viceministra con delega a logistica e approvvigionamenti. Con ciò, Putin le affida una delle leve più sensibili e ricche del Paese. Nello stesso periodo, il marito diventa ministro dell’Energia. Le ambizioni di Tsivileva non sembrano esaurirsi qui: punta a una grande carica socio-economica — forse vicepremier per la politica sociale, a danno della «liberale» Tatyana Golikova, possibile prossima vittima del rimpasto.

Il «principe d’affari»
Yury Kovalchuk, probabilmente il più influente oligarca russo, amico intimo di Putin, dominatore dei media non statali e mentore di Sergei Kiriyenko, ha tentato nel 2024 di far compiere al figlio Boris il grande salto: dalla guida di Inter RAO (gigante energetico) ai vertici di Rosneft o Gazprom. Putin lo ha fermato: niente troni petroliferi, ma la presidenza della Corte dei Conti, un incarico dignitoso ma percepito come un «prepensionamento». Una scelta che ha umiliato il padre e ridimensionato il figlio, e che conferma l’assenza di automatismi: persino i più vicini a Putin non possono imporre la loro linea dinastica senza il suo placet.

Il «principe dei servizi segreti»
Nikolai Patrushev, ex direttore dell’FSB (servizio di sicurezza, la maggiore centrale d’intelligence, erede di quel KGB sovietico in cui lavorò Putin) ed ex segretario del Consiglio di Sicurezza, per anni architetto ideologico dell’antiamericanismo russo, nel 2024 ha tentato la mossa più ambiziosa: elevare il figlio Dmitry a primo ministro. Putin ha detto no. La funzione di premier, seconda carica dello Stato e sostituto automatico del presidente in caso di impedimento, non può essere affidata a un membro di un grande clan. Putin non è pronto a definire un erede. Risultato: Dmitry diventa vicepremier, mentre il padre viene «retrocesso» a consigliere presidenziale per la cantieristica navale — un incarico che equivale a una pensione umiliante. Un segnale diretto alla vecchia guardia: nessuno è intoccabile.

Gli eredi e la generazione dei «figli di»
Putin ha sempre promosso i figli dei fedelissimi. Resta valida l’ironica battuta dei tempi dell’Unione sovietica: «Il figlio di un generale può diventare maresciallo? No, perché anche i marescialli hanno figli». Tra le nuove leve più significative:
Pavel Fradkov (figlio dell’ex premier e capo dell’intelligence esterna Mikhail Fradkov) è oggi vice ministro della Difesa, accanto ad Anna Tsivileva.
Peter Fradkov, suo fratello, dirige Promsvyazbank, banca di Stato che finanzia i contratti militari, e il suo nome circola per incarichi economici di vertice.
Vladimir Kiriyenko, figlio di Sergei Kiriyenko (lo “zar” della politica interna), guida il conglomerato tech VK, che controlla social network, piattaforme video e messaggistica, nel tentativo di creare un ecosistema digitale sovrano alternativo a YouTube.
Tuttavia la stabilità di questi eredi è legata alla longevità politica dei padri: non tutti sopravvivono al loro tramonto. Sergey Ivanov Jr., figlio dell’ex ministro della Difesa e capo di gabinetto del Cremlino, è stato rimosso dal vertice di Alrosa (monopolio dei diamanti) nel 2023 senza paracadute: esempio di come il declino di una famiglia possa inghiottire rapidamente la carriera di un «principe».

La guardia del corpo che potrebbe essere l’uomo del «dopo»
Aleksey Dyumin, ex guardia del corpo personale di Putin, ex capo delle Forze Speciali, protagonista dell’operazione Crimea del 2014, vice ministro della Difesa, governatore di Tula per otto anni, è oggi segretario del Consiglio di Stato e uomo chiave nel «cerchio interno». Ha fama di «colui che risolve problemi», è considerato una risorsa in caso di crisi, e molti lo definiscono l’erede operativo”: quello che potrebbe gestire il potere in una fase di emergenza, senza tuttavia ricevere un’investitura formale. Dyumin ha avuto un ruolo cruciale nella mediazione con Yevgeny Prigozhin durante la rivolta Wagner del 24 giugno 2023, quando la colonna mercenaria si fermò proprio nella sua regione. È notoriamente ostile a Shoigu, e in molti si aspettavano che lo sostituisse alla Difesa. Putin, per evitare di rafforzarlo troppo, lo ha preferito come consigliere-ombra alla Difesa, al proprio fianco. In breve: lo promuove ma non lo consacra. L’ambiguità è voluta.

I vicepremier tecnici
Denis Manturov, 56 anni, è il vicepremier più potente, responsabile dell’economia di guerra: «tutto per il fronte, tutto per la vittoria». È il braccio destro di Sergei Chemezov, boss della Rostec (l’intero complesso militare-industriale russo). Con Chemezov prossimo alla pensione, Manturov potrebbe ereditarne l’impero industriale. È la figura che garantisce la continuità materiale dello sforzo bellico: produzione, catene di fornitura, mobilitazione produttiva.

Dmitry Chernyshenko, anch’egli 56 anni, entrato nell’élite passando dall’organizzazione delle Olimpiadi di Sochi (2014), è oggi il candidato naturale a succedere a Sergei Kiriyenko nella gestione della politica interna del Cremlino. Se, come si vocifera, Kiriyenko verrà spostato a gestire i territori occupati in Ucraina con rango di vicepremier, Chernyshenko potrebbe prendere il suo posto nella macchina del consenso. Kiriyenko non ha fallito; anzi, ha garantito tutte le «vittorie elettorali» e costruito una fabbrica di quadri (concorsi Leaders of Russia, Scuola dei Governatori, Scuola dei Sindaci, per selezionare burocrati patriottici). Proprio il successo di questa filiera ha aumentato il suo potere, abbastanza da far scattare l’allarme di Putin: nessuno deve essere troppo forte, dunque lo si sposta.

Il coach-principe e l’oligarchia sportiva
La famiglia Rotenberg (Arkady e Boris, amici di Putin dai tempi del judo) è un pilastro dell’oligarchia putiniana. I loro figli non cercano incarichi politici, ma controllano settori strategici quali costruzioni, opere pubbliche, sport, media sportivi. Roman Rotenberg, 44 anni, nipote di Arkady, è il simbolo perfetto del nepotismo «senza vergogna». Cresciuto in Finlandia e nel Regno Unito, rientra in Russia e scala lo sport nazionale: vice-presidente del club SKA San Pietroburgo a 30 anni, vice-presidente della Federazione Russa di Hockey a 33, nel 2022 si auto-nomina allenatore sia dello SKA sia della nazionale russa, senza alcuna esperienza tecnica. Quando nel 2018 critica pubblicamente il commissario tecnico campione olimpico Oleg Znarok, quest’ultimo lo insulta («Chi diavolo sei tu per insegnarmi l’hockey?») e viene subito licenziato. Con la Russia bandita dalle maggiori competizioni internazionali, Rotenberg è protetto dal ridotto controllo esterno, e può costruire la sua narrazione sportiva a uso interno. L’inefficienza resta impunita, purché la lealtà al leader sia totale.

Il futuro: più capitalismo di clan, più imperialismo
La nuova generazione non ha più l’impronta sovietica. È capitalista, pragmatica, pronta a fare affari con chiunque: Cina, Iran, Europa, Stati Uniti — persino con l’Ucraina se conviene. Sul piano simbolico e culturale, idealizza l’impero più che l’URSS. Odia l’isolamento, preferisce il business, vede nella guerra uno strumento di consolidamento interno e di redistribuzione verticale del bottino. Se la vecchia guardia aveva almeno l’eredità ideologica sovietica (per quanto cinica), questa nuova generazione è figlia di un’ideologia ibrida: nazionalismo conservatore + capitalismo di rendita + verticalismo personalistico.

La strategia di Putin ricorda gli ultimi anni di Fidel Castro a Cuba: creare un gruppo di giovani, totalmente fedeli, per portare avanti la sua linea. Nel momento cruciale, Castro scelse il fratello Raúl — una soluzione dinastica. Putin non ha fratelli, non si fida di nessuno e non è disposto a indicare un erede. Per questo lavora a un sistema di successione diffusa, senza un erede singolo: un mosaico di clan, famiglie, tecnocrati e apparati, tutti tenuti insieme da lui.

La stabilità che questo sistema sembra offrire è illusoria. Cresce l’inerzia del potere, ma anche la sua fragilità strutturale: la legittimazione popolare è assente, i conflitti tra clan sono latenti, l’economia è distorta dalla guerra, la diplomazia è personalizzata. La sopravvivenza del sistema dipende dalla capacità di Putin di bilanciare le tensioni, limitare le ambizioni dei vari centri e impedire l’emergere di successori troppo forti. Se questa architettura perde il suo architetto, il rischio è quello del collasso o della guerra tra clan, più che di una graduale transizione.

È un regime dinastico senza dinastia, un feudalesimo amministrativo senza legittimità, una modernizzazione capitalistica senza riforme politiche. Costruisce un dopo-Putin che sia ancora putiniano — fatto di lealtà, parentele, reti personali e controllo maniacale della competizione interna. Il risultato è una nuova élite giovane, fedele, ricca e potentissima, ma senza un progetto proprio né una base sociale. Una successione senza transizione che garantisce continuità al leader e alle sue famiglie, ma lascia aperta la domanda fondamentale: cosa accadrà nel momento in cui l’unico elemento davvero fondamentale del sistema — Vladimir Putin — dovesse venir meno?

28 luglio 2025