È un uomo smagrito, segnato, ma ha ancora lo stesso lampo negli occhi. Vittorio Sgarbi si è raccontato ad Aldo Cazzullo, per il Corriere, nella sua casa romana insolitamente silenziosa.

«Sono caduto un po’ in depressione», dice. Vittorio Sgarbi non nasconde la propria amarezza per la fine dell’esperienza governativa, le dimissioni da sottosegretario alla Cultura: «Ritengo di aver subìto un’ingiustizia assoluta. Che mi è pesata moltissimo, e mi è stata riconosciuta da pochi». Qualcuno lo ha difeso: «Sabino Cassese ha scritto un bell’articolo sul Corriere in mia difesa. Pigi Battista ha fatto notare che tenere conferenze non è certo incompatibile con il lavoro al ministero della Cultura, anzi». Ma «gli altri, niente». E la premier: «Mai sentita in questi mesi».

La depressione, racconta, lo ha colpito togliendogli i desideri. «Non desideravo più nulla. Non avevo più voglia di vivere. E ho cominciato a rifiutare il cibo. Anche solo vedere il cibo mi repelleva. Terribile».

La malattia lo porta in ospedale: «Era febbraio, ricordo Sabrina che guardava il festival di Sanremo accanto al mio letto, al Gemelli». Lui ammette l’incapacità di reagire, in quel momento. È stato curato con «farmaci. E nutrizione forzata. Le sacche, le flebo in vena. Ho scoperto che si dice “parenterale”. Ero molto debole, sono arrivato a pesare 59 chili. Adesso sono 71. Vede questi pantaloni? Non mi stavano su».

Vittorio Sgarbi è consapevole di avere rischiato di morire. «Sono stato in pericolo di vita». Ma «Sabrina mi ha salvato la vita. Con il suo amore. E adesso la sposo». Ma tra le persone che lo hanno trattenuto dal precipizio c’è anche la sorella Elisabetta. «Mi portava in giro per i migliori ristoranti della Versilia, pur di farmi mangiare qualcosa. Ordinava tutti i piatti del menu, nella speranza che almeno uno mi ingolosisse». La rete di amici e colleghi non lo ha mai abbandonato: «Ho sentito che c’è gente che mi vuole bene. Luigi Manconi ha scritto un articolo che non mi aspettavo. Massimo Cacciari mi ha chiamato spesso. Come Alain Elkann e Antonio Gnoli. Geminello Alvi è venuto varie volte a trovarmi».

Ma le ultime vicende familiari lo hanno ferito. Vittorio Sgarbi definisce incomprensibile la richiesta di interdizione avanzata dalla figlia Evelina: «Non ho capito bene perché l’abbia fatto, e che cosa voglia». Quanto al suo patrimonio, «certo, i quadri sono moltissimi. Cinquecento. Ma non sono più miei. Sono della Fondazione Cavallini-Sgarbi. Me ne sono spossessato. Sono vincolati all’Italia. Non possono lasciare il nostro Paese. Non possono essere venduti, se non in blocco: cosa che mi pare piuttosto difficile». Sulla reazione degli altri figli, racconta: «Alba è stata nobile. Carlo si è astenuto».

Adesso per Vittorio Sgarbi è arrivato il momento di provare a riaprire la porta: «Sto cercando di rafforzarmi. E di riaprirmi agli altri. Mi ero chiuso, come un riccio». Vuole ricominciare «a scrivere» e sogna di tornare «ancora una volta a fare teatro». E annuncia le nozze: «Al più presto. A Venezia», nella chiesa «della Madonna dell’Orto. Per i suoi splendidi quadri».

Il finale è una battuta che suona anche come una promessa: citando Gombrowicz, che ha letto durante la malattia, lancia un messaggio alle persone che lo seguono: «Se qualcuno di voi, Ferdydurkisti, risiede ancora tra i vivi, che non perda la speranza, poiché non sono morto».