Il francese, 39 anni, 13 titoli Atp, ha comunicato sui social la sua decisione: “Se penso a quelli contro cui ho giocato, Federer, Nadal, Djokovic e Murray, era epico persino perdere, figurarsi riuscire una volta ogni tanto a batterli”
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1 ottobre – 18:05 – MILANO
Australian Open 2007. Jim Courier aspetta il ventenne Gael Monfils a bordocampo per la consueta intervista riservata al vincitore del match: il francese l’ha spuntata contro Baghdatis grazie al secco 6-0 sfornato al quarto set, nonostante alcuni problemi fisici in precedenza. Courier ha preso nota, e gli fa: “Gael, nel terzo zoppicavi, poi hai tirato fuori un bagel per chiudere la partita. Sei stato un attore divertente”. Il ragazzo risponde all’incrocio delle righe: “Ah sì? Allora puoi trovarmi un lavoro insieme a Denzel Washington, dal momento che sono un attore…”. Lingua lunga, un dritto di difficile lettura, successi e spettacolo: il manifesto del Monfils-pensiero. Lo chiamavano lo Showman, nel circuito Atp in cui ha vissuto per quasi vent’anni: ora, all’alba dei trentanove, ha annunciato che la prossima sarà la sua ultima stagione. L’ultimo gioco di prestigio dell’illusionista del tennis.
ultimo anno—
Gael Monfils ha scelto una lunga lettera affidata ai social per comunicare la decisione: “Ho iniziato a tenere in mano la racchetta a due anni e mezzo, e ho iniziato da professionista a diciotto. Ora, dopo aver celebrato il mio 39esimo compleanno un mese fa, voglio dirvi che il prossimo sarà il mio ultimo anno da professionista”. L’ultima fermata di un viaggio che lo ha arricchito nello spirito e in bacheca: ha conquistato 13 titoli Atp (di cui tre da 500 punti) e lo ha portato tre volte in finale nei Masters 1000. Per molti è stato un giocatore troppo dotato per non vincere uno Slam o almeno arrivare a giocarsi una finale, ma il primo a voler allontanare i rimpianti è stato proprio lui: “Avresti potuto, avresti forse dovuto…” la vita è troppo breve per avere rimpianti, io non li ho. E sono troppo vecchio per averne”.
CONTRO I CYBORG—
Nessun rimpianto, nessun rimorso. Ma un album, quello sì, dominato dai colori di successi, sorrisi, amicizia coi più grandi del nostro tennis. Il grigiore di sconfitte e infortuni occupa solo piccole note a margine, perché “se penso a quelli contro cui ho giocato, Federer, Nadal, Djokovic e Murray, era epico persino perdere, figurarsi riuscire una volta ogni tanto a batterli” racconta nella lettera social. Contro Djokovic non c’è mai stato verso: a Brisbane, quest’anno, il serbo gli ha inflitto la ventesima sconfitta su venti precedenti. “Ma che volte farci, questo è un cyborg” diceva di lui il francese già nel 2009, dopo la finale (persa, appunto) a Bercy, “anche perché neanche a Virtua Tennis giocano così bene”. Contro Federer e Nadal invece gli acuti sono arrivati: Monfils ha vinto col primo in Coppa Davis e col secondo a Doha.
TRENI E AEROPLANI—
Eppure, proprio per quell’insostenibile leggerezza dell’essere Monfils, le partite giocate meglio sono… sconfitte: tipo quella in una delle primissime partite da professionista, appena diciottenne a Bercy, col numero 3 Lleyton Hewitt. Oppure la finale di Montecarlo 2016 contro Nadal: lo spagnolo per due set non è ingiocabile, Monfils gli tiene testa e lo costringe al parziale decisivo. Che Rafa vince di misura: 6-0. Il francese in conferenza non ha dubbi, però: “Ho giocato nettamente la miglior partita di sempre sulla terra, ho giocato a un livello straordinario. Ma Rafa è il Goat”. E Monfils chi è stato? La scheggia impazzita di un ventennio abbagliante: quello che a causa degli infortuni ha perso treni, ma in giornate di grazia è salito sugli aeroplani. Come quella volta che a Indian Wells, nel 2022, sorprese l’allora numero 1 al mondo Medvedev, spodestandolo dal trono del ranking. O come l’anno scorso, quando a Cincinnati ha scoperchiato il pentolone di preoccupazioni di Alcaraz dopo la finale olimpica, eliminandolo dal 1000 nordamericano.
PADRONE DEL CEMENTO—
“Papà, mamma, guardate quanto siamo arrivati lontano” scrive il francese nella lettera social. Lontanissimo. Fino al numero 6 del mondo, conquistato a trent’anni nel 2016: Monfils nell’ultimo decennio è quasi ringiovanito, in certe occasioni. E la zavorra della carta d’identità è diventata una stelletta da appuntarsi al petto lo scorso gennaio, quando la settimana perfetta di Auckland lo ha premiato come il più anziano giocatore a vincere un torneo Atp. Sul cemento, ovviamente: la superficie preferita, quella che gli ha regalato 12 titoli su 13 (l’eccezione arrivò curiosamente nel suo primo trionfo, vent’anni fa sulla terra rossa di Sopot) e che lo mandò persino in semifinale allo Us Open, nel 2016. Quando poi fece check-out contro la bestia nera Djoovic.
OBIETTIVI—
A proposito di superfici e battute, Monfils non è mai andato per il sottile neanche negli ultimi anni di carriera. Soprattutto con gli haters scommettitori che lo avevano riempito di insulti (diversi di matrice razzista, peraltro) lo scorso giugno dopo il ko all’esordio sull’erba di Stoccarda. Gael non si è fatto problemi a rispondere con un video in diretta sui social: “Avete puntato su di me per un match giocato su erba, oltretutto al debutto stagionale sul verde. E poi lo stupido sarei io?”. Dritto all’incrocio delle righe, senza possibilità di replica: l’illusionista sa anche tirare al bersaglio. A proposito di obiettivi, Monfils ha parlato anche di quelli nella lettera d’addio: “Sarebbe incredibile vincere un altro titolo prima del ritiro, tuttavia il mio unico obiettivo per il 2026 è semplice: godermi ogni minuto, giocare ogni partita come fosse l’ultima”. E che scroscino gli applausi: lo Showman li ha ampiamente meritati.
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