«Quando mia mamma lo ha lasciato, mio padre ha cominciato a telefonare in modo ossessivo, centinaia di volte ogni giorno e ogni notte. Una volta si è arrampicato sul davanzale e ha cercato di segare le persiane con un coltello lungo, da cucina. Noi, barricati là dentro, guardavamo la lama. Un’altra volta, tornando a casa da scuola, ho trovato la casa piena di infermieri. C’era sangue ovunque. Si era tagliato le braccia. Sopra la porta della mia camera aveva scritto “SPARITE” con il sangue».

Qualcuno ci tiene a dire che non ci si può sentire in colpa in quanto maschi. È sbagliato: «Il cromosoma Y non è il marchio di Caino». Valerio, che conduce l’incontro, spiega che non si tratta di colpa ma di responsabilità: «Se una ragazza ha paura di attraversare un parco perché è femmina, è un problema di tutti». Carlo dice: «Magari nel 2050 non ci saranno gruppi di autocoscienza per maschi e per femmine, ma di persone». La consapevolezza dei progressi fatti dalle donne è assoluta, ma qui vengono vissuti come una ragione in più per mettersi in discussione e migliore. Invece non c’è nessuna idea, dei passi avanti fatti dagli uomini. Mi incarico io di spargere un po’ di orgoglio: «Guardate che la distanza tra un ragazzo nato nel 2000 e suo nonno è immensa. In pochi decenni i maschi hanno imparato a fare cose che non avevano mai fatto in 250.000 anni di storia, cioè da quando l’homo sapiens è comparso sulla Terra. E sono conquiste, cose belle, come occuparsi dei bambini piccoli, poterli toccare e cambiare, ma anche arredare una casa o cucinare».

L’incapacità dei maschi di comunicare a parole le proprie emozioni e il dolore, soprattutto tra loro, emerge da ogni gruppo. Le ragazze si ritrovano per parlare, i ragazzi sempre per fare qualcosa: vedere una partita, giocare a pallone o ai videogiochi, bere, in qualche orrido caso ancora per fischiare alle donne. Spesso si siedono di fianco, non di fronte. Si guardano poco in faccia, come sulle panchine. È come se avessero bisogno di un oggetto di desiderio comune per entrare in contatto. O di fare una gara. Ed è qui il punto, forse. La debolezza. La paura ancestrale di mostrarsi deboli di fronte ad altri maschi, l’impossibilità di parlarne per non essere emarginati o attaccati.

«Ma non sono venuto qui soltanto per mio padre. C’è una frase che mia figlia mi ha detto il giorno della morte di Giulia Cecchettin, a cui ripenso spesso: “Se una mia amica va in fissa perché viene lasciata, noi tra amiche ne parliamo e le parliamo, è come una rete, quando lei piange e si dispera, proviamo ad aiutarla, le diciamo di riprendersi e, se supera certi limiti, le spieghiamo che quello che fa non è sano, andiamo dalla madre, le consigliamo di curarsi. Voi questo non lo fate mai. Mai. Se state male, state da soli. Per questo, forse, l’ha uccisa”».

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