Individuare in anticipo chi svilupperà un tumore al seno invasivo potrebbe rivoluzionare la gestione clinica di migliaia di donne. Un nuovo studio del King’s College di Londra ha dimostrato come un test genetico possa aiutare a distinguere i casi destinati a evolvere da quelli che resteranno non invasivi. Per la prima volta, i ricercatori hanno evidenziato una correlazione tra il punteggio di rischio genetico e la possibilità che un carcinoma in situ evolva in una forma invasiva.

La prima autrice, Jasmine Timbres, lo definisce un passo significativo: “I risultati iniziali sono molto promettenti e la possibilità di prevedere l’evoluzione della malattia è fondamentale per offrire le migliori opzioni terapeutiche possibili alle donne”. “Inoltre – continua Timbres – il punteggio genetico potrebbe evitare trattamenti invasivi non necessari, che possono avere un impatto negativo sui pazienti sia fisicamente che emotivamente”. Lo studio, pubblicato su Cancer Epidemiology, Biomarkers & Prevention e finanziato dal Breast Cancer Now, apre la strada a un modello di cura più personalizzato. In un momento in cui lo screening intercetta un numero crescente di lesioni precoci, riuscire a identificare chi è realmente a rischio potrebbe ridurre i sovratrattamenti e migliorare concretamente la qualità di vita delle pazienti.

Perché il problema è urgente

L’aumento delle diagnosi di lesioni pre-invasive del seno è una conseguenza diretta dei programmi di screening mammografico, che intercettano sempre più frequentemente cellule anomale come il carcinoma duttale in situ (DCIS) e il carcinoma lobulare in situ (LCIS). Queste alterazioni non sono tumori invasivi, ma in una parte dei casi possono evolvere, e oggi non esiste un modo affidabile per distinguere chi svilupperà la malattia da chi non andrà incontro a nessuna conseguenza. Questa incertezza porta molte donne a essere trattate “per precauzione” con chirurgia, radioterapia o terapie antiestrogeniche, con effetti fisici e psicologici rilevanti.

Altre vengono sottoposte a controlli ravvicinati che alimentano ansia e stress. Il nodo è la sovradiagnosi: fino al 20-30 per cento dei DCIS potrebbe non trasformarsi mai, ma in assenza di strumenti predittivi le pazienti vengono considerate a rischio. Più screening significa più diagnosi e più trattamenti, anche quando non necessari. A tutto ciò si aggiunge il peso emotivo di una diagnosi incerta, che può generare paure e senso di sospensione per anni. In questo contesto, un test genetico in grado di stratificare il rischio aiuterebbe a evitare terapie inutili e a concentrare l’attenzione su chi è davvero esposto alla progressione verso forme invasive.

Lo studio

Lo studio ha coinvolto oltre 2.000 donne del Regno Unito con una diagnosi pregressa di DCIS o LCIS, le alterazioni cellulari più comuni rilevate nello screening mammografico. Alle partecipanti sono stati analizzati i campioni biologici per valutare 313 varianti genetiche, combinandole in un punteggio complessivo di rischio. I ricercatori hanno poi monitorato nel tempo l’evoluzione clinica dei casi, confrontando i punteggi genetici più alti con l’effettiva comparsa di tumori invasivi. L’obiettivo era capire se questo strumento potesse aiutare a distinguere chi è destinato a sviluppare la malattia da chi non lo farà mai.

Non basta guardare le cellule al microscopio

“Finora – ha sottolineato la prof.ssa Elinor Sawyer, oncologa e autrice principale dello studio – le decisioni terapeutiche si sono basate principalmente sull’aspetto delle cellule al microscopio, ma la nostra ricerca mostra come un punteggio di rischio genetico possa aiutare a prevedere quali donne svilupperanno un carcinoma invasivo”. Per Sawyer questo significa che non bisogna concentrarsi solo sul quadro istologico (i risultati dell’analisi microscopica di un campione di tessuto), ma “anche tenere conto del rischio genetico e dei fattori legati allo stile di vita di ogni donna consente di fornire informazioni più accurate sul rischio personale di recidiva, aiutando le pazienti a fare scelte più consapevoli”.

Uno strumento utile, ma servono conferme

Sulle potenzialità dello strumento è intervenuto anche il dottor Simon Vincent, direttore scientifico di Breast Cancer Now, secondo cui “questo studio dimostra che il punteggio di rischio genetico potrebbe essere uno strumento utile per prevedere un futuro tumore al seno nelle donne a cui è stato diagnosticato un carcinoma duttale in situ o un carcinoma lobulare in situ”. Tuttavia, Vincent invita alla prudenza: “Sebbene questi risultati iniziali siano promettenti, sono necessarie ulteriori ricerche prima che questo test possa essere utilizzato più ampiamente”.

Il tumore al seno in Italia

Nel nostro Paese il tumore al seno rimane la neoplasia più diffusa tra le donne. Nel 2024 sono state registrate 53.686 nuove diagnosi, su un totale di 390.100 nuovi casi oncologici. L’incidenza resta elevata, ma negli ultimi cinque anni la mortalità si è ridotta di circa il 6 per cento. La diagnosi precoce gioca un ruolo decisivo, ma in Italia l’accesso allo screening mammografico è ancora disomogeneo. Una proposta per estendere il programma gratuito alle donne tra i 45 e i 50 anni e tra i 70 e i 74 non è stata approvata, nonostante l’aumento delle diagnosi in età più giovane e l’invecchiamento della popolazione.

Poi c’è un altro nodo critico: i trattamenti innovativi. In media, servono 14 mesi per rendere disponibili nuovi farmaci oncologici, con forti differenze tra le regioni. Le disparità territoriali riguardano anche i tempi di presa in carico e la disponibilità di centri specializzati: non tutte le pazienti possono contare su Breast Unit certificate, tempi rapidi per diagnosi e follow-up o percorsi terapeutici integrati. Di conseguenza, la qualità e la tempestività dell’assistenza continuano a dipendere in modo significativo dal luogo di residenza.