Lo spettacolo quindi sono i due protagonisti, Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla (quello del Teatro degli Orrori), che sembrano usciti da un film di Aki Kaurismäki, individui marginali fuori da ogni moda, con la bevuta facile e una visione di mondo loro. All’inizio del film, ubriachi, si stanno confidando il segreto della vita: uno dei due sta per dirlo all’altro, ma gli sfugge. C’è questo dettaglio che gli manca per recuperare il segreto della vita, ce l’aveva sulla punta della lingua. E allora vanno in un altro locale per il bicchiere della staffa, e poi in un altro, finendo a non andare mai a dormire. Rimangono svegli fino al mattino dopo, quando devono andare a prendere un amico all’aeroporto. Ma sbagliano aeroporto. E quindi di nuovo un bicchierino. E via così per giorni.
Attraversano il Veneto delle campagne e dei paesini, ville di nobili decaduti in cui si fingono architetti, forse un tesoro nascosto sottoterra chissà dove. La forza di Le città di pianura è che, mentre fa il lavoro tipico del cinema italiano (agitare dei personaggi in primo piano per raccontare lo sfondo), apre continuamente trame nuove e storie che non saranno mai chiuse né andranno da alcuna parte. Sempre più esilaranti. È un caos narrativo bellissimo e mai fastidioso, alimentato dall’alcol non per stordirsi ma per tenere uno stile di vita piacevolmente alterato, leggero e soffice. Il tanto che basta per non tornare mai sobri. Non è difficile riconoscere in questi personaggi la rappresentazione di figure di contorno del nord-est italiano, caratteristi della vita vera che qui sono elevati a protagonisti.

Lucky Red