La tragedia è iniziata nella mattina del 30 settembre a Paupisi, piccolo comune del Beneventano, nella contrada Frasso. Secondo le prime ricostruzioni, al culmine di una lite scoppiata in casa, Salvatore Ocone, 58 anni, avrebbe colpito la moglie, Elisa Polcino, 49 anni, con ripetuti colpi di pietra mentre la donna era nel letto matrimoniale: per lei non c’è stato nulla da fare. Subito dopo, l’uomo sarebbe fuggito a bordo della sua auto con i due figli minorenni a bordo.

La fuga è terminata in Molise, tra Ferrazzano e Mirabello Sannitico, dove i carabinieri, con il supporto di un elicottero, hanno intercettato il veicolo e fermato Ocone. Durante il tragitto o poco dopo, i due figli avrebbero ricevuto a loro volta colpi, con pietre e frammenti di vetro, che hanno provocato la morte del ragazzo di 15 anni e il grave ferimento della sorella di 16, trasferita in condizioni critiche al Neuromed di Pozzilli. Un terzo figlio, maggiorenne, si trovava invece fuori regione per lavoro e per quella distanza si è salvato.

Nella notte Ocone è stato ascoltato dagli inquirenti; fonti riportano che l’uomo avrebbe ammesso di aver ucciso la moglie, fornendo versioni sui rapporti coniugali che sono ora al vaglio della Procura di Benevento, che ha aperto un fascicolo per omicidio volontario e sta coordinando gli accertamenti. Sul luogo del delitto sono stati eseguiti rilievi dalle forze dell’ordine per ricostruire la dinamica esatta: resta da chiarire se i figli siano stati colpiti nell’abitacolo durante la fuga o precedentemente in casa.

La comunità di Paupisi è sotto shock: nella prima fase della vicenda alcuni testimoni avevano dipinto Ocone come “uomo tranquillo, un lavoratore”, e il parroco locale ha parlato di una persona “fragile” che aveva avuto in passato problemi di salute. Tuttavia, con il passare delle ore sono emerse testimonianze diverse: i vicini raccontano litigi frequenti e urla provenienti dall’abitazione della coppia, elementi che hanno fatto sgretolare la versione del “bravo uomo”. Gli investigatori stanno ricostruendo anche eventuali precedenti segnali di violenza e controllando le telefonate, i tabulati e le testimonianze per completare il quadro probatorio.

Questa vicenda non è solo l’ennesimo caso di cronaca nera: è l’ennesima conferma che il femminicidio in Italia è un’emergenza strutturale. Non basta ripetere che “non c’erano denunce” o che “non si poteva prevedere”: la violenza domestica spesso vive nel silenzio, nelle porte chiuse, nelle urla che qualcuno sente ma che non vengono trasformate in aiuto concreto. Quando scoppia la tragedia, scopriamo che i segnali c’erano, litigi, tensioni, richiami, ma sono rimasti piccoli indizi, disperso il tempo della prevenzione.

La brutalità del gesto, pietre, vetro, il massacro della propria famiglia, manda in frantumi ogni retorica del “rabbioso raptus” che trasforma il carnefice in una vittima del proprio istinto. Uccidere la propria moglie, i propri figli, non è un cedimento improvviso che si spiega con una diagnosi o con un “era una brava persona”: è l’espressione di un potere assoluto, di un dominio che si trasforma in annientamento. Parlare di “fragilità” o di “depressione superata” non può diventare scudo morale per chi distrugge la vita degli altri.

Ma oltre alla condanna morale e penale, dobbiamo chiederci, senza ipocrisie, come intervenire per spezzare la catena. Le istituzioni devono rafforzare i canali di ascolto, rendere davvero accessibili protezioni efficaci, investire nelle scuole e nei servizi di prossimità. I vicini, le famiglie allargate, i medici di base, i parroci: tutti i luoghi in cui si avverte una tensione devono avere strumenti concreti per segnalare e attivare una rete di protezione. Non è sufficiente rammaricarsi dopo: la prevenzione richiede risorse, formazione, protocolli che non si fermino alla denuncia, ma accompagnino la vittima prima che sia troppo tardi.

Infine, il pensiero va agli orfani: quel ragazzo che ha vissuto lontano e oggi torna a casa per trovare il vuoto è un sopravvissuto che porterà il peso della perdita per sempre. Gli orfani di femminicidio restano spesso invisibili alle politiche di sostegno a lungo termine: occorre creare percorsi di tutela psicologica, economica e sociale che non si esauriscano con la fine dell’emergenza mediatica. Perché a sconfiggere questa guerra, sì, guerra, serve una risposta collettiva, quotidiana, capillare. Dobbiamo trovare il modo di vincere la guerra.