di
Renato Piva

Calcio, il compleanno del tecnico trevigiano: «Potevo essere anche un bravo giocatore, mi mancavano gli artigli. Come allenatore sono stato la sintesi tra Arrigo Sacchi e Osvaldo Bagnoli»

Dal cancello di casa Guidolin a quello dello stadio che ha visto (e benedetto) i primi passi del giocatore e pure dell’allenatore, il Comunale di Castelfranco, sono cento metri a farla lunga. Magari è stato un caso ma racconta qualcosa, forse molto dell’uomo Francesco. Casa, famiglia, «dimensione» nel senso di confine e necessità quasi fisica, limite che in prima battuta può anche essere stato stretto ma poi è diventato scelta, da rivendicare come giusta misura, sono le «parole forti» alla vigilia di un giorno speciale: i settant’anni, venerdì, di Francesco Guidolin. «Taglio un traguardo importante. Lo sento più dei venti, trenta e quaranta. Dei settanta, dicono che è stata fatta strada: speriamo ce ne sia non altrettanta ma ancora abbastanza. Sono contento di essere arrivato fin qui e spero di riuscire a vedere mio nipote giocare a calcio…»

Primo ricordo del pallone?
«La mia casa vicina alla Stazione, dove ho cominciato a tirare i primi calci con gli amici della via. Sotto casa c’era un campetto apposta per i bambini: lì mi sono appassionato a questo sport, con mio padre che tornava dal lavoro e, ogni volta che bucavo un pallone, era pronto a sostituirlo perché sentiva che c’era una passione forte. Ecco, il primo ricordo è quella passione lì».



















































Papà ha pesato, quindi…
«Papà lavorava in un negozio di alimentari, poi diventato suo. Era juventino ma non sfegatato. Vedeva che, già da piccolino, tra me e il pallone c’era una buona sintonia. Mi ha solo assecondato, pur ripetendomi un miliardo di volte che prima c’era scuola, il lavoro, che il calcio è difficile e doveva essere un gioco. Per me quello è stato, solo che, di anno in anno, diventavo sempre più bravino…».

Un talento in una città non proprio grande…
«Già. Il Giorgione e un allenatore, Toni Guarise, che ricordo ancora con affetto. Poi i “ma varda sto toso”, i “piè boni”» e “Rivera”… Sapevo di essere seguito da vari osservatori, finché sono andato al Verona, a 17 anni».

Dal paese alla città.
«È stata dura. Non volevo andare via di casa, mi sembrava di essere in una città lontanissima ed ero ad appena un’ora di macchina. Facevo su e giù in treno. Ero molto legato alla famiglia, alla mia casa e alle mie cose nella mia casa. Dall’altra parte andava bene: ero aggregato alla prima squadra e sentivo che c’erà fiducia dalla società e aspettative. Così è arrivato l’esordio in A a vent’anni, l’Under 21 e poi una carriera che, a un certo punto, si è un po’ fermata».

I motivi?
«Non ho saputo tirar fuori gli artigli che tante volte occorrono in questo mondo. Della carriera di giocatore ricordo anche un pizzico di sfortuna, però. A 28 anni, quando con Bagnoli abbiamo vinto il campionato di B ed ero capitano (‘81/82, con otto gol, ndr), lui mi voleva tenere ma il club ha voluto prendere Dirceu, tra i migliori ai Mondiali, e mi hanno lasciato a casa. Allora le società potevano tagliare i giocatori e così è stato. Lì, di fatto, è finita la mia carriera. Il Verona ha cominciato la fuga in avanti fino allo scudetto dell’85, io sono andato a Bologna in B, mi sono rotto un ginocchio che non è mai guarito, sono tornato a Verona senza mai giocare, sono passato a Venezia… Gli artigli li ho tirati fuori qualche anno dopo, quando ho cominciato – e presto – a fare l’allenatore, anche per una sorta di rivincita nei confronti del Francesco calciatore».

Rimpianti?
«Un po’ ma è passato tanto tempo. Posso dire tranquillamente di essere stato bravo nel calcio ma per essere un bravo calciatore non basta saper giocare a calcio. Bisogna avere qualcosa in più».

Guidolin allenatore: una sintesi tra Sacchi e Bagnoli?
«Ci sta. Bagnoli per umanità, riservatezza e serietà; Sacchi per l’innovazione. Ho cominciato in panchina quando Sacchi ha iniziato a stupire il mondo del calcio. Sono stato preso da questo modo di giocare e intendere il calcio che non era italiano, ma moderno e tutto suo».

Vicenza-Milan di Coppa Italia 96-97, poi vinta dal suo Lane, fece dire a molti: «Come gioca il Vicenza». Partita manifesto?
«Magari un po’. Ero squalificato e l’ho vista dalla tribuna. La mia squadra mi aveva fatto una grande impressione. Molti dicono sia stata la più bella partita dei quattro anni meravigliosi al Vicenza. Ne ho un ricordo vivido ma credo che quel Vicenza ne abbia fatte altre così o quasi».

È ancora l’ottavo allenatore per presenze in serie A.
«E pensare che ho smesso 11 anni fa… Dai, essere ancora nella top ten è motivo d’orgoglio. Verrò scalzato, sicuro, ma teniamoci il motivo di soddisfazione».

Altro primato che non troppi ricordano: con quattro squadre diverse in Europa senza allenare una big.
«Credo che negli ultimi trent’anni, dal 1995 quando ho cominciato in A, nessun tecnico che non sia passato dalle grandi abbia portato quattro squadre diverse in Europa. Il Vicenza per la Coppa Italia, il Bologna in Intertoto, l’Udinese due volte in Champions e il Palermo in Europa League. Ma c’è un altro pensiero a cui tengo…».

Prego…
«Ho fatto tre volte la B per scelta e sono sempre stato promosso subito in A».

«Provinciale» per circostanze o anche per scelta? Veri i suoi no alle big?
«Dopo gli anni al Vicenza sono stato cercato da alcune grandi squadre e ci sarei andato, se fosse arrivata l’opportunità. Sembrava fosse dall’oggi al domani. Cragnotti è venuto a mangiare a casa mia per parlare della Lazio e sembrava fatta. Quante volte capitava che, mentre ero fuori in bici, chiamasse Mazzola per fissare un incontro… Insomma, sono stato cercato ma non si è concretizzato nulla. Non avevo procuratore, allora. Pensavo bastassero i risultati per salire, invece non è successo e ci sono anche rimasto male. La carriera è continuata, alla fine mi sono trovato a Udine e ho capito che quella, anche per la famiglia, era la mia dimensione: con il club, la città e la gente. Lì sono arrivate altre grandi a cercarmi e sono stato io a dire di no».

Aveva detto stop, poi è arrivata la Premier.
«C’è stata la possibilità di un colloquio col presidente dello Swansea: sono piaciuto, due settimane e mi hanno chiamato, erano in crisi. Anche lì, il lavoro è andato bene… Tornassi indietro andrei all’estero un po’ prima».
Due figli nel calcio da procuratori, uno che, tra le difficoltà del Giorgione, ha avviato un progetto di scuola calcio per bambini. Ne farà parte?
«L’iniziativa mi piace molto, come stare vicino ai miei figli e al Giorgione in generale, ai bambini. Spero che il progetto possa portare tanti bambini a Castelfranco, che vengano qui per giocare a calcio invece che andarsene per lo stesso motivo. Se posso stare vicino, sì. Buttarmi in campo a giocare con i piccoli ci può stare, altre cose più “impegnative”, però, no».


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2 ottobre 2025