Abruzzo, 1943. Un luogo e un anno che raccontano quel mutare degli eventi dopo l’armistizio, in un territorio tagliato dalla linea Gustav (cadrà solo nel maggio dell’anno successivo), ancora occupato dai tedeschi e in cui le brigate partigiane erano attive, dalle più strutturate e note – come quella della Maiella – ai gruppi presenti seppure meno organizzati. Nel pescarese, intorno alla zona di Roccamorice, si può visitare ciò che resta: le miniere di bitume di Acquafredda, ora un sito di archeologia industriale, e uno dei quindici campi di prigionia esistenti durante la seconda guerra mondiale. Proprio dall’eremo di Acquafredda si avvia la storia che Laudomia Bonanni ci racconta nel suo La rappresaglia, romanzo concluso alla metà degli anni Ottanta che Bompiani scelse di non pubblicare e edito nel 2003 da Textus – un anno dopo la morte dell’autrice.
GRANDE SCRITTRICE di origini aquilane e maestra (il trasferimento a Roma avviene nel 1969), Bonanni conosceva l’asperità dei suoi luoghi, il significato della guerra e della lotta di liberazione dal nazifascismo, aveva coscienza, infine, della tracotanza degli uomini. Oggi, grazie alle cure sapienti di Laura Fortini, possiamo accedere a questo pezzo importante di memoria, che nel caso di una scrittrice come Bonanni è operazione di rammendo vivente. Romanzo unico, per spessore letterario e storico, La rappresaglia ritorna in libreria nel catalogo delle edizioni Cliquot (pp. 176, euro 18 – nel 2021 sempre per Cliquot esce Il bambino di pietra, e nel 2023 Le droghe) e Laura Fortini, nella sua impeccabile prefazione, al contempo critica e politica, lo inserisce all’interno di una esatta genealogia di scrittrici italiane che legano l’indimenticabile protagonista di Bonanni, La Rossa, alla Agnese di Renata Viganò e la Ida di Elsa Morante, fino alle pagine di Gianna Manzini e Alba de Céspedes. Del resto, per avere contezza del protagonismo delle donne in quegli anni, basterebbe citare due testi come La Resistenza taciuta di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina (1976) e Compagne di Bianca Guidetti Serra (1977), quest’ultimo il racconto, in prima persona, di cinquantuno donne che hanno partecipato alla Resistenza (ripubblicato per Einaudi pochi mesi fa con una introduzione di Benedetta Tobagi).
Nell’inverno del 1943, lungo la strada per arrivare all’eremo di Acquafredda, un gruppetto di fascisti incontra una donna incinta; arriva da lontano con un’asina carica di legna sotto cui sono nascosti dei fucili. La rappresaglia è il racconto delle giornate che la Rossa trascorre con questo manipolo di uomini, maschile è anche la voce narrante di uno di loro che, da impassibile testimone con velleità letterarie, dopo anni riordina quei resoconti: «una storia balorda, se non ci si fossero messi di mezzo donne e bambini. Le donne fanno tragedia. I bambini sono l’agnello». Portata all’eremo, la Rossa viene imprigionata e processata. Il verdetto definitivo sulla sua sorte arriverà in seguito, nel frattempo giunge alla prigione rocciosa un seminarista, «un pretuccio». Nel ritratto di una guerra civile in corso, la presenza della Rossa – «vestita proprio da contadina, infagottata nell’incappatura nera fino agli occhi, da cui lampeggiavano sguardi bianchi» – diventa sì monumentale.
NON SOLO PERCHÉ «gli uomini contemplavano muti quel ventre che occupava enorme i loro pensieri» – una immagine del perturbante perfetta, in ogni epoca – ma perché Bonanni riesce a consegnarci il grembo potente di un parto a venire e, insieme, l’insurrezione della Storia. Come tale scompigliante ogni cosa, a partire dall’aridità della guerra non a caso indicata come un evento che «svezza» anzitempo.
Scrive bene Fortini quando avvisa dei diversi elementi che concorrono a riconoscere nella Rossa una strega, seppure nel testo il termine non compaia mai esplicitamente, «con l’augurio profetico da vera strega e sibilla quale essa è». Ad esempio quando la sua lezione politica, civile e affettiva, si connette a un sogno ricorrente fin da ragazzina: essere un occhio in un bastone.
Quei sorveglianti che le stanno intorno vogliono forse sapere chi lei sia, dopo essere stata a servizio, dopo aver rubato giornali e riviste anche se si sentiva «orba e muta», dopo aver sempre svolto «lavoro di braccia» e studiato come poteva. In quella che all’apparenza è una trascurabile fantasticheria notturna, la Rossa indica la costrizione in un pezzo di legno con un occhio in alto che le consente di vedersi nella condizione della sua prigionia, «in cima alla più nera impotenza». Ed è proprio il bastone in cui risuona uno sfondo di sapienza popolare antica, si pianta a terra e vigila sul male che arriva addosso dal mondo, protegge in virtù di questa seconda vista. Chissà.
OGNI PAROLA DELLA ROSSA sgorga furente e libera, dal massiccio corpo di un eremo incassato nella roccia in cui alcune donne, per voto e prima della guerra, vi si arrampicavano in ginocchio. È una forza capace di esondare condivisa dalla Rossa con alcuni racconti dei processi per stregoneria, con l’efficacia del dire di sé che, nel caso di Bonanni, si mescola alla coscienza di una scrittrice che già nel 1960, con il suo romanzo (L’imputata, diventato un successo internazionale) attraversava dedita l’esistenza delle sue simili. Con qualche certezza: «è un fatto che la rivoluzione è femmina», dice la Rossa e poco più avanti aggiunge: «Il nostro sesso è profondo e fecondo come la natura (…) Ecco: a via di truffarla, la natura, si potrebbe finire di imbrogliarla del tutto».
Non ha paura, si accorge delle stelle, pensa se quegli uomini davvero saranno «gli imbecilli» che la uccideranno, domanda al seminarista quale sia il nome che le ha dato sua madre non il ruolo che ha deciso per sé, li osserva e li vede, impossibile ignorare ciò che sono. E quando all’eremo arrivano altre donne non perde lucidità, anche davanti all’ineluttabile sa di sé stessa. L’angoscia, il dolore dell’abominio fascista contro cui si combatte, non diventano mai celebrazione eroica né resa ma, nella penna di Laudomia Bonanni, una occasione di resistenza essenziale: «al mondo si nasce e poi comunque si trova da coprirsi e il cibo viene e viene la vita e si va nella vita. Una sbalorditiva semplicità».