di
Gennaro Scala
Nel 2015 Giuseppe Iaquinangelo precipitò da un ponteggio. La ditta per cui lavorava era la stessa che gestiva il cantiere in cui sono deceduti i tre uomini
«Sono addolorato per quello che è successo, penso alle famiglie delle vittime. È stato come rivivere lo stesso mio incidente. Serve maggiore sicurezza, servono più controlli. Queste tragedie non devono più avvenire».
Giuseppe Iaquinangelo ha 54 anni. Nel 2015, mentre lavorava in un cantiere per la ristrutturazione di un fabbricato a Napoli, precipitò nel vuoto da circa dieci metri. Il ponteggio su cui si trovava — tecnicamente chiamato «bilancia» — era senza protezioni laterali e lui non indossava imbracature. Per quell’incidente, da circa dieci anni è costretto su una sedia a rotelle.
Un dramma che si ricollega a quello che è accaduto a Napoli venerdì scorso. Perché la ditta per cui lavorava Iaquinangelo è la stessa che aveva allestito il cantiere in cui sono morti i tre operai, precipitati da un cestello elevatore al settimo piano. Anche loro senza imbracature di sicurezza. Si chiamavano Vincenzo Del Grosso, 53 anni, Luigi Romano, 66 e Ciro Pierro, 61 anni. Quest’ultimo era amico di Giuseppe. «Lo conoscevo bene», dice Iaquinangelo guardando in alto, come a cercare nella memoria.
Poi un salto all’indietro, fino al 28 maggio del 2015: «Del mio incidente non ricordo quasi nulla. Per tre mesi sono rimasto in coma. Al risveglio non mi ricordavo neppure di mia figlia».
Iaquinangelo parla con difficoltà, alterna sprazzi di lucidità a molti «non ricordo». Parla di sicurezza, dicendo — come risulta anche dai verbali d’inchiesta — che quando precipitò dal ponteggio «le protezioni non c’erano» perché la ditta non avrebbe «fornito protezioni a sufficienza». Poi ancora, «non ricordo».
Iaquinangelo e la moglie hanno 4 figli e in questi dieci anni, se non fosse stato per l’Inail, non avrebbero avuto alcun mezzo di sostentamento.
È l’avvocata Giovanna Iodice a chiarire che per quell’incidente «Vincenzo Pietroluongo, il titolare, fu condannato a sei mesi in primo grado, poi prescritto in Appello l’anno dopo, ma la ditta non ha mai risarcito il danno. Il mio assistito oggi vive sulla sedia a rotelle e vive solo grazie alla pensione dell’Inail, perché, per fortuna, era inquadrato».
«Il problema è relativo alla lentezza della giustizia – continua l’avvocata – Dopo l’incidente, l’ispettorato del lavoro si è attivato subito. Ma è un dato di fatto che l’inchiesta ha invece impiegato cinque anni per andare a giudizio. Si è arrivati alla sentenza nel 2022. Due anni e mezzo tra Appello e Cassazione erano tuttavia un tempo troppo breve perché il reato non fosse sottoposto a prescrizione».
«Il nodo è proprio questo – specifica il deputato Francesco Emilio Borrelli che, contattato dalla famiglia Iaquinangelo, ha organizzato un incontro con la stampa davanti al luogo dell’incidente – Mi batterò perché per i reati relativi agli infortuni sul lavoro le norme sulla prescrizione vengano riviste – aggiunge – Ora sono considerati alla stregua di incidenti domestici. Senza una prescrizione, questa ditta non avrebbe probabilmente continuato a operare. O, per lo meno, non in questo modo. Con una condanna, quei tre operai non sarebbero morti».
28 luglio 2025 ( modifica il 28 luglio 2025 | 22:02)
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