Oltre 50 anni di carriera da dirigente ai massimi livelli. “Cominciai con Herrera, mi portò in panchina come regalo Ritardai un cambio, Ancelotti s’infuriò ma la Juve fece gol. Il calcio mi ha aiutato a non pensare”


Gregorio Spigno

Giornalista

4 ottobre 2025 (modifica alle 08:59) – MILANO

Giorgio Perinetti è uno di quei dirigenti sportivi navigati, vecchio stile, padroni di un calcio che in più di 50 anni di carriera ha visto trasformarsi. Una vita a rincorrere il pallone subito dopo il diploma al liceo classico con De Sica e Verdone. Tra successi, situazioni delicate — come quando toccò a lui il compito di comunicare a Maradona la squalifica per quello che tecnicamente veniva considerato “doping” —, presidenti vulcanici, soddisfazioni. E dolore. Una costante negli ultimi anni di vita personale: prima la scomparsa della moglie (nel 2015 a 49 anni), poi quella ancora più devastante della figlia Emanuela portata via dall’anoressia. Una malattia infima per cui Perinetti non riesce a darsi pace. Ma che allo stesso tempo ha acceso un campanello d’allarme, perché ora l’obiettivo dell’ex ds di Roma, Napoli e Juve è diventato quello di evitare casi simili. 

“Quello che non ho visto arrivare” è il libro che ha scritto su sua figlia. Si è convinto subito? 

“In un primo momento, anche parlando con l’altra mia figlia, Chiara, ero restio. Poi è stato dolorosissimo rivivere tutto, ma in un certo senso mi ha dato sostegno. Spero di mettere sotto i riflettori il tema dei disturbi alimentari: dopo la scomparsa di mia figlia, il dottore che la curava mi ha raccontato di aver fatto leggere la sua storia ad un’altra paziente. E così ha accettato il ricovero. Questa è stata la mia spinta”. 

Una ragazza intelligente, che aveva tutto. Sopravvivere ad un figlio è qualcosa di innaturale, perderla in questo modo è stato devastante

Oggi riesce a sopravvivere? 

“Non sono stato fortunato: prima ho perso mia moglie, poi Emanuela. Una ragazza intelligente, che aveva tutto. Sopravvivere a un figlio è qualcosa di innaturale, perderla in questo modo è stato devastante. Devo ringraziare Chiara che mi ha dato forza. Siamo rimasti noi due. Ogni volta che ci incontriamo, si parte con lunghi silenzi. Momenti in cui viviamo intensamente il ricordo delle persone che abbiamo perso”. 

Ha smesso di sentirsi in colpa? 

“No. Un genitore di colpe se ne dà mille, si fa migliaia di domande, non riesce a trovare risposte. Io mi guardo sempre indietro, quando mia figlia mi chiedeva di inventarci qualcosa insieme. Interpretavo questa richiesta come una diminutio per lei, non certo per me. E invece forse erano solo richieste di aiuto. Non l’ho capita, non ho recepito i segnali e questa è la mia più grande disperazione. Emanuela mi chiamava tutte le mattine, si preoccupava per me, mi aggiornava”. 

Emanuela è sempre stata interessata al calcio. 

“Da bambina, con la mamma veniva a vedere la partita. Senza parlare mi guardava con gli occhi imploranti e allora le chiedevo se volesse tornare in pullman a Trigoria col papà o a casa con la mamma. Si accomodava sempre in braccio ad Aldair”. 

C’è qualcosa in particolare che l’ha aiutata a non pensare? 

“Il calcio. Sia dopo la scomparsa di mia moglie, quando accettai Venezia un mese più tardi, sia dopo quella di mia figlia, tra Avellino e Athletic Palermo, scelto perché volevo chiudere da dove sono partito: ragazzi giovani a cui regalare un sogno. È necessario per tenere occupata la testa”. 

Ho fatto il classico con Verdone e De Sica, con Carlo ci sentiamo ancora tutti i giorni

Tornando a lei, ha condiviso l’adolescenza con due personaggi noti… 

“Feci il liceo classico all’istituto Nazareno di Roma, gli ultimi due anni in classe con Verdone e De Sica. Carlo lo sento ancora quotidianamente, con Christian ci siamo un po’ persi. Loro erano pariolini, io no… Ma quanti scherzi ai professori con Verdone”. 

Il suo inizio nel calcio? 

“Con la Roma, ad Ostia, amichevole contro la Nazionale dilettanti. Io avevo 22 anni e facevo il dirigente del settore giovanile. Era il mio compleanno, allora pregai un superiore di regalarmi un posto seduto accanto ad Herrera. Così il Mago mi chiama: ‘Vamos, veloce, in panchina’. Un sogno”. 

“Ferlaino mi chiese di comunicare a Maradona la squalifica per uso di cocaina. Andai a casa sua, gli parlai, Diego si portò una mano sul fianco e disse solo ‘Non è possibile…’, con una smorfia di dolore fisico sul viso che non dimenticherò mai”. 

E il periodo alla Juve? 

“Le racconto un aneddoto. Eravamo ad Atene per Olympiacos-Juve di Champions. Non un momento brillantissimo, ci giocavamo la qualificazione ma stavamo perdendo. Ancelotti mi dice che vuole mettere Fonseca al posto di Conte, io pasticcio con la lavagnetta e perdo tempo. Il mister si arrabbia, il cambio ritarda… e Conte fa gol. Mi giro verso Ancelotti: ‘Ah Carlé, t’avevo detto d’aspettà!’. Ebbi involontariamente ragione”. 

E fu lei a lanciare Conte allenatore… 

“Lo consideravo un predestinato. Era il capitano della Juve, a centrocampo giocavano lui, Deschamps, Davids e Zidane, ma Antonio si imponeva sui campioni attraverso il carattere. Così pensai che sarebbe diventato un grande allenatore. Ma la mia grande scoperta da allenatore è un’altra: dopo la finale di Champions persa dalla Roma ai rigori nell’84, sostituii Liedholm con Eriksson. Tutti si ricordano dei suoi successi con la Lazio, ma in Italia lo portai io”. 

La più grande soddisfazione e la peggior delusione? 

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“Entrambe legate ancora ad Eriksson. La Coppa Italia vinta con lui sulla panchina della Roma è stata la gioia più profonda, la delusione invece aver lasciato uno scudetto alla Juventus a causa di una sconfitta in casa contro il Lecce. Ero giovanissimo, vincere un campionato a 34 anni… Oggi non avrei mai perso quella partita. Ma si tratta di una sconfitta che mi ha insegnato più di ogni vittoria”.