C’è uno degli autori più controversi del Novecento, c’è un geniale scultore giapponese trapiantato a Milano, c’è uno scrittore americano fallito e oscurato dal fratello. Tre storie di mondi apparentemente lontani ma accomunate dal rapporto problematico, profondo e conflittuale con la cultura nipponica: Mishima, Azuma e Leonard Schrader sono al centro di Discipline occidentali Leonard Schrader, Kengiro Azuma e un anno di kendo (Castelvecchi, pp. 160 , € 18,00), l’ultimo libro di Francesco Baucia, il suo terzo romanzo dopo L’ultima analisi (2013) e La notte negli occhi (’20). Se i primi due sono effettivamente romanzi, seppur contaminati dalla Storia, questo Discipline occidentali è un felice intreccio fra romanzo, saggio letterario, biografia e autobiografia. Baucia costruisce una piccola cattedrale narrativa, in cui le vite dei tre soggetti vengono raccontate attraverso significativi momenti di crisi e/o di svolta che hanno segnato per sempre la loro esistenza. E se, da studioso, Baucia si è occupato spesso della tecnica del montaggio cinematografico applicata alla letteratura, stavolta la sperimenta sul campo, dimostrandone l’efficacia quando impiegata con giudizio: è difficile posare il libro, mentre a scene alterne ci vengono raccontate le vite dei tre protagonisti.
Il più noto è ovviamente Mishima, oggi ricordato più per il suo sensazionale seppuku – il suicidio rituale dei samurai, compiuto in segno di protesta per la dilagante occidentalizzazione del Giappone e la perdita dei valori nazionali – che per i suoi scritti illuminanti: Baucia, rimastone folgorato in gioventù, ci invita a riscoprirli. Del resto, la morte e il suicidio sono temi ricorrenti nelle opere di Mishima, sin da quando, durante la guerra, viene scartato per ragioni fisiche dall’esercito, dove sarebbe voluto entrare nei battaglioni dei kamikaze. Dall’umiliazione di non aver potuto difendere la patria nasce il suo nazionalismo, così come dalla vergogna per il suo fisico gracile nasce il culto del corpo e della disciplina che emerge nelle sue parole e nei suoi atti.
Affascinante è la vicenda umana di Azuma, che invece riesce a farsi arruolare, giovanissimo, nei battaglioni suicidi. Ma la sua missione, già pianificata e per la quale si era a lungo addestrato, resterà irrealizzata per la sopraggiunta fine del conflitto. Azuma, anch’egli smarrito di fronte a un Giappone in cui non c’è più spazio per gli ideali con cui è cresciuto, ritrova senso ed equilibrio grazie all’arte, sceglie di lasciare il suo paese e di trasferirsi in Italia, dove, sotto la guida di Marino Marini, diventa uno degli scultori più interessanti nel vivace panorama dell’arte moderna fra gli anni sessanta e settanta.
Leonard Schrader è un aspirante scrittore, che studia con maestri d’eccellenza – Borges, Vonnegut e Algren fra gli altri – ma senza riuscire a trovare una sua voce. Parte per il Giappone per sfuggire all’arruolamento in Vietnam e, prendendo spunto dal suo difficoltoso impatto con una cultura che fatica a decifrare, inventa il soggetto di Yakuza, film che con gli anni diventerà un cult. Sarà presto oscurato, dopo averne favorito il successo, dal fratello minore Paul, che si affermerà come uno degli sceneggiatori più influenti del cinema americano, oltre che regista assai prolifico nella quantità benché discontinuo nella qualità, almeno secondo buona parte della critica. E sarà proprio Paul, altro protagonista ‘ombra’ del libro con sfumature da villain, a dirigere il più noto film sulla vita di Mishima, scritto insieme al fratello.
A consolidare la complessa struttura del libro è infine l’esperienza personale con la cultura nipponica dell’autore stesso, attraverso il racconto di un anno di pratica del kendo, l’arte marziale al centro del film ideato da Schrader. Baucia ci racconta l’arduo – forse impossibile – sforzo di conciliare una disciplina che, come tutte le arti marziali, richiede un’adesione acritica ai suoi principi con la forma mentis di uno studioso, abituato a indagare il senso di ogni cosa, a chiedersi il perché di ogni gesto.
Oggi, con una parola abusata, parleremmo di autofiction, ma qui l’esperienza dell’autore – autentica o romanzata che sia – non è fine a se stessa, né un semplice guardarsi l’ombelico; è invece necessaria per comprendere come e perché le vite degli altri protagonisti, pur così diverse, siano intrecciate da fili quasi invisibili ma indistruttibili.