A partire dalla metà del Cinquecento, a Venezia, Parigi e Norimberga si stamparono numerose raccolte illustrate che ritraevano uomini e donne nei costumi ritenuti «tipici» dei diversi popoli del mondo. Destinati all’intrattenimento, a metà tra fruizione estetica e curiosità intellettuale, i «libri di costume» elaboravano un nuovo linguaggio visivo per rappresentare allo stesso tempo differenze culturali e gerarchie sociali o di genere. Sulla scia degli atlanti contemporanei cui spesso attingevano – a partire dal fortunato Theatrum Orbis Terrarum del fiammingo Abramo Ortelio – questi libri mettevano in scena un vero e proprio «teatro del mondo». I corpi, vestiti o seminudi, venivano proiettati nello spazio globale come segni di un’alterità da visualizzare, classificare e in qualche modo addomesticare.
Su questo sfondo si inserisce la ricerca di Giulia Calvi che, dopo una prima versione inglese (The World in Dress, 2022), pubblica ora per il Mulino, in forma ampliata, Vestire il mondo Una storia globale di abiti, corpi, immaginari («Saggi», pp. 194, € 21,00). L’autrice analizza i libri di costume non solo come prodotti editoriali o artistici, ma come strumenti per indagare inedite forme di contatto e ibridazione tra culture. Il libro è costruito a partire da tre casi di studio principali, ovvero la Scandinavia, l’Impero Ottomano e il Giappone; ma al loro fianco si leggono pagine importanti sulle minoranze etniche e religiose presenti in Andalusia, nei Paesi Baschi, nei Balcani e nelle isole dell’Egeo. In queste «zone di contatto», intese come spazi di negoziazione e mescolanza tra culture diverse, i corpi e gli abiti diventano espressione di identità fluide e ambivalenti, in cui le minoranze, sottolinea Calvi, trasmettono le proprie tradizioni soprattutto attraverso i rituali e i costumi femminili. Come mostra del resto anche la storia dell’impero britannico, in contesti segnati da profonde asimmetrie di potere l’abito è parte delle tecniche di governo. Se si pensa alla storia del velo e dei suoi divieti nell’Impero spagnolo del Cinquecento, tra cristiane «vecchie» e cristiane «nuove» o morische (convertitesi dall’Islam), la rappresentazione del corpo delle donne e di ciò che lo riveste permette di leggere da una prospettiva illuminante le tensioni e i paradossi della prima globalizzazione.
Il fulcro del volume è l’opera di Cesare Vecellio, un collaboratore e cugino del più celebre Tiziano, che alla fine del Cinquecento pubblicò a Venezia due edizioni di un libro di costumi destinato a grande fortuna: prima gli Habiti antichi et moderni di diverse parti del mondo (1590), e quindi gli Habiti antichi et moderni di tutto il mondo (1598). Con la prima edizione, i cui testi sono scritti interamente in italiano, Vecellio si rivolge a un pubblico colto ma locale, accompagnando le figure con descrizioni dettagliate degli abiti di Europa, Asia e Africa. La seconda edizione, in italiano e latino, limita invece la componente narrativa in favore di un impianto più sintetico e descrittivo, riduce lo spazio dedicato alle donne privilegiando figure maschili legate al potere, e soprattutto si apre a un orizzonte globale. L’aggiunta delle Americhe e di regioni come Giappone e Molucche riflette una percezione del mondo ormai interconnesso, forte della quale Vecellio costruisce una vera e propria geografia dell’abito, fondata su logiche gerarchiche e coloniali. La sua opera riflette la straordinaria ricchezza di fonti disponibili a Venezia, che fornirono all’artista materiali e ispirazioni: repertori visivi, testi geografici e storici, collezioni private come quella raccolta a Belluno dal conte Odorico Piloni. L’apertura al mondo, tuttavia, non è frutto di una semplice curiosità antiquaria, ma è espressione di uno sguardo politico preciso, sensibile alle trasformazioni globali e alle loro implicazioni simboliche.
Venendo alla Scandinavia, una delle principali fonti di Vecellio – che Calvi ha il merito di individuare – è l’Historia de gentibus septentrionalibus (1555) dell’arcivescovo cattolico Olao Magno. Qui l’abito emerge come un dato insieme etnografico e politico: attraverso le immagini dei lapponi, rappresentati come buoni selvaggi del Nord pesantemente tassati dalla corona di Svezia, si costruisce una rappresentazione delle minoranze nordiche che sfida le gerarchie culturali dell’Europa del tempo. Le descrizioni delle cerimonie nuziali, ad esempio, suggeriscono una certa parità tra i generi, sorprendente per il tempo. La circolazione di queste immagini è facilitata da testi come le Relazioni universali di Giovanni Botero – che definisce la penisola scandinava «il Nuovo Mondo in Europa» – o dai confronti stabiliti dal portoghese Damião de Gois tra i popoli nativi della Scandinavia e quelli delle Americhe.
Nel caso dell’Impero Ottomano, l’ibridazione è ancora più evidente. Il Libro di abiti di diverse nazioni realizzato da Cristoforo Roncalli, detto il Pomarancio, durante il suo viaggio in Nord Europa al seguito del marchese Vincenzo Giustiniani (1606), è un esempio di rappresentazione mediata: l’autore non visitò mai i luoghi raffigurati e non poté fondarsi sull’osservazione diretta, ma attinse a fonti precedenti, come Les quatre premiers livres des navigations et pérégrinations orientales di Nicolas de Nicolay, pubblicate nel 1567 e presto tradotte in italiano, in una versione più ampia stampata a Venezia nel 1580. I disegni del Pomarancio rispondono peraltro non tanto a interessi documentari o estetici, quanto a esigenze identitarie e commemorative del committente: Giustiniani era nato a Chios poco prima della drammatica conquista ottomana dell’isola (1566), e lo spazio che l’album riserva al Levante dipende chiaramente da un’opzione personale del committente. È per ricordo, per fissare in un’immagine nostalgica ciò che il committente aveva perduto, che Pomarancio riprende da Nicolay le bellissime immagini di una ragazza e di una donna sposata di Chios.
Calvi analizza anche raccolte meno note, come il cosiddetto Taeschner Album, prodotto a Istanbul da maestranze locali, ma forse al servizio di diplomatici veneziani; o la monumentale Series of Prints and Drawings Serving to Illustrate the Modes and Fashions of Ancient and Modern Dresses in Different Parts of the World della collezione Stibbert di Firenze, dove di nuovo la collaborazione tra artisti turchi e intermediari europei (diplomatici, missionari, dragomanni) produce immagini pensate per il mercato occidentale, ma secondo un gusto per le compilazioni ibride diffuso tra le élite urbane ottomane, safavidi e moghul.
L’ultimo caso affrontato è il Giappone, dagli echi della prima missione diplomatica giapponese in Europa, organizzata dai gesuiti (1582-1591), allo straordinario album realizzato nel 1714 dall’enciclopedista Nishikawa Joken e aggiornato nel 1801 dal geografo Yamamura Saisuke. Intitolato Il popolo dei quarantadue paesi, quest’album rielabora le mappe (all’epoca proibite) del gesuita Matteo Ricci, adottando però una prospettiva critica verso il cattolicesimo, una «falsa dottrina» di cui si teme l’aggressività e la diffusione globale, dalla penisola iberica a Macao e Goa.
Vestire il mondo propone una lettura originale, decentrata e non eurocentrica della prima età moderna come spazio di contatti, mobilità e scambi. Ponendosi in una prospettiva di «storia connessa», il libro racconta gli abiti non come semplici ornamenti, ma come dispositivi culturali che rivelano tensioni, rapporti di forza e scambi non sempre pacifici. In una ricerca appassionante e di prima mano, Giulia Calvi indaga le immagini e i corpi vestiti che esse rappresentano come il prodotto di interazioni storiche concrete in un mondo sempre più globalizzato, nel quale la rappresentazione visiva della differenza è stata, ed è tuttora, uno strumento potente per costruire identità e gerarchie, appartenenze e esclusioni.