Nel paese dove non nascono più bambini, il paese dell’inverno demografico, si licenzia per maternità.

Avete letto bene: si perde il lavoro perché si aspetta un figlio. Avete letto bene e con realismo amaro commentate: dov’è la notizia? Lo sappiamo come va il mondo, lo sport, le pallonate, la competizione il mercato. Lo sappiamo quali sono le regole non scritte, diritti a parte, quelle rimaste nero su bianco anche dopo la cancellazione delle dimissioni in bianco (2015) che molte donne dovevano firmare al momento dell’assunzione. La gravidanza è un rischio che non si può correre. La notizia, dunque, c’è, e dobbiamo ringraziare il coraggio di Asia Cogliandro che ieri Giulia Zonca ha raccontato su queste pagine. C’è la notizia e va molto oltre lo sport. Una pallavolista (serie A) con 15 anni di carriera alle spalle, tagliata fuori dalla squadra al momento della gravidanza non è una metafora, ma lo stato dell’arte, lo stato delle cose.

Tagliata fuori vuol dire che il salario che non c’è più, la casa deve essere lasciata in fretta e soprattutto non c’è possibilità di un altro impiego, lavoro d’ufficio o gestione dei social: volevano proprio che mi levassi di mezzo, racconta la giocatrice. Non si tratta – solo – di discriminazione: la storia di Cogliandro è la storia di molte donne, tutte in serie A. Lo stesso messaggio è stato recapitato, in vario modo a dirigenti e operaie, ricercatrici e studenti, commesse, impiegate, estetiste, attrici, mediche. Sono vicende che accadono ovunque, anche se raramente vengono fuori; i numeri, però, le restituiscono tutte: stando agli ultimi dati, una lavoratrice su cinque esce dal mercato del lavoro dopo la maternità e il 72,8% delle convalide delle dimissioni dei neogenitori riguarda le donne. Teniamo sempre a mente il quadro d’insieme: nell’ultimo trimestre 2024 il tasso di occupazione femminile nel nostro paese era del 53,1%, oltre 13 punti sotto la media europea. Dovremmo guardare qui, quando affrontiamo, pensosi, il problema demografico, il declino economico, le culle vuote. Dovremmo legare i numeri e riconoscere la gigantesca questione politica che ci consegnano: una cultura che al netto della retorica, della tradizione e di stereotipi obsoleti, considera la maternità un problema, un impaccio, una zavorra, qualcosa da tagliare fuori. Qualcosa, detta altrimenti, che deve restare ben lontana dal mondo del lavoro, e dalla sfera pubblica, perché è incompatibile. Qualcosa che deve tornare in quel privato da dove, meno di mezzo secolo fa, ha faticosamente cominciato ad uscire. Aut/aut, poche storie. Non tutto è così, intendiamoci, ma guardiamo i numeri, oltre le nostre bolle. Non tutto è così, ci sono le eccezioni, ma, appunto non sono la regola.

La politica, dicevamo: mentre altrove – Europa più forte – l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro ha trasformato orari e assetti sociali, da noi si è continuato a pensare che chi lavora è – sempre – uomo, magari ha figli ma non è lui che li fa nascere, non vive la gravidanza, il parto e il post parto. Le tutele sociali conquistate, le leggi sacrosante valgono nel pubblico ma non hanno cambiato le teste. Non è cambiato il sistema, non si è riorganizzato intorno alla presenza di donne alle quali può accadere, in età fertile, di avere figli. Sta qui, l’inverno, in questo immobilismo, nel dire “fuori!” a chi viola l’aut/aut e vuole, oltre la serie A, un figlio. Ma il prezzo di questo rifiuto, sciocco e miope, lo paghiamo tutti: l’inverno demografico riguarda la tenuta del paese e sarebbe tempo di capire che deve fare i conti con la libertà conquistata dalle donne.