Un’eccellenza italiana, e tuttavia un groviera strutturale. La sanità lombarda – e bresciana – è un guazzabuglio che alterna esperienze ospedaliere all’avanguardia a servizi territoriali lacunosi. Un sistema che promette molto ma mantiene poco, in cui a pagare il prezzo più alto sono i cittadini. Di questo si è parlato durante l’incontro organizzato dalla sezione bresciana di Italia Viva la scorsa settimana. Nel titolo, la questione: La sanità lombarda (e bresciana) è a un punto di svolta?  

Case di Comunità: cosa sono e cosa promettono

La domanda s’impone in luce del percorso intrapreso nel 2021 da Regione Lombardia per istituire, sull’intero suo territorio, le Case di Comunità. L’idea è virtuosa e ambiziosa: portare la sanità più vicina ai cittadini, superando la logica dell’ospedale come unico punto di riferimento. Si tratta di strutture territoriali multidisciplinari, dove i cittadini possono accedere a una gamma di servizi che vanno dalla diagnostica di base agli infermieri di famiglia, dagli sportelli amministrativi alle équipe integrate di medici, psicologi e operatori socio-sanitari. L’intento è creare un vero e proprio punto di presa in carico del paziente, riducendo le code negli ospedali e migliorando continuità e qualità delle cure.

In provincia di Brescia, Regione Lombardia ha inaugurato finora 19 Case di Comunità. Tuttavia, molte di queste restano solo sulla carta: pochi servizi sono operativi, e per gran parte dei cittadini la promessa di accesso semplice e immediato a prestazioni territoriali rimane lontana.

Tra annunci e realtà

Il primo problema, sottolinea la consigliera regionale Lisa Noja (IV), è di trasparenza: “Ci viene detto che le strutture sono aperte, ma non sappiamo quante funzionano davvero. Senza una piattaforma che mostri ai cittadini quali servizi sono attivi e dove, la riforma rischia di restare opaca”. Noja ha ribadito le priorità che intende portare in Regione: “Mancano dati chiari sui servizi attivi e sui tempi previsti per l’attivazione completa. Serve trasparenza, sia verso i cittadini sia in Consiglio regionale. Chiediamo un portale unico che dia visibilità reale, e un cronoprogramma certo per arrivare entro il 2026 a strutture funzionanti con tutti i servizi”.

Ha poi aggiunto: “È fondamentale fare una ricognizione delle realtà già esistenti sul territorio, che non fanno parte dell’elenco ufficiale, ma potrebbero entrare nella rete delle Case di Comunità, dando così ai cittadini una mappa completa dei servizi disponibili”.

Il ruolo dei medici di base

“Noi abbiamo due questioni che si intrecciano: una nazionale e una regionale”, ha spiegato Noja. “A livello nazionale si discute da anni sul rapporto dei medici di medicina generale con lo Stato. Oggi questi professionisti operano come liberi professionisti convenzionati, non sono dipendenti del Servizio sanitario nazionale e non hanno obblighi vincolanti di lavorare nelle Case di Comunità, che rappresentano il nuovo modello di medicina territoriale. La proposta di assumerli come dipendenti, avanzata dal ministro Schillaci, punta a dare stabilità soprattutto ai giovani medici e a favorire la loro presenza nelle strutture territoriali. Tuttavia, la Regione Lombardia può comunque intervenire a livello locale: creare incentivi economici e organizzativi, rendere più attrattivo il trasferimento dai piccoli studi privati alle Case di Comunità, strutture più accessibili, meglio attrezzate e capaci di garantire continuità assistenziale”.

C’è un’altra grande questione, ed è quella dell’impegno burocratico che infesta il lavoro dei medici di famiglia. “Oggi molti passano gran parte della giornata tra scartoffie e pratiche amministrative, un carico che riduce la disponibilità verso i pazienti. All’interno delle Case di Comunità potrebbero trovare un supporto organizzativo più efficiente, concentrandosi sulla loro attività sanitaria. È fondamentale, inoltre, costruire un dialogo costante con enti locali e sindaci, in modo da modulare le soluzioni sulle diversità territoriali: dal capoluogo alle valli più distanti, passando per i piccoli comuni circostanti, ogni territorio ha esigenze specifiche. Senza questo coordinamento, le Case di Comunità rischiano di diventare strutture scollate dal territorio, incapaci di rispondere ai reali bisogni dei cittadini”.

Liste d’attesa, CUP e ricadute sui cittadini

Il primo e più evidente sintomo del malfunzionamento del sistema risiede però nelle liste d’attesa: le loro tempistiche, notoriamente lunghe, sono particolarmente pesanti a Brescia. La questione, secondo Noja, non riguarda tanto i fondi quanto la carenza di personale e strumenti organizzativi adeguati. “Da quindici anni attendiamo il CUP unico regionale, che dovrebbe consentire di prenotare indifferentemente in tutte le aziende pubbliche e convenzionate. Senza questa piattaforma, i cittadini si trovano a rimbalzare tra centralini che dichiarano agende chiuse e sportelli incapaci di dare risposte. È inammissibile che il sistema venga rinviato al 2027”.

Il tema non è marginale: oggi il 65% delle prestazioni in Lombardia è erogato da privati accreditati, e la mancanza di un’unica agenda rende difficile controllare il rispetto degli obblighi da parte di tutte le strutture. La consigliera regionale ha richiamato la necessità di “imporre” regole più rigide, anche rivedendo le convenzioni con chi non mette a disposizione i propri slot per i cittadini.

Tuttavia, la condivisione delle agende non è sufficiente a ridurre le attese se non si interviene anche sull’appropriatezza prescrittiva. In altre parole, accanto all’offerta, va considerata la domanda: visite prescritte come urgenti senza reale necessità, controlli ravvicinati non sempre giustificati, esami duplicati per mancanza di coordinamento tra specialisti. Senza linee guida condivise e strumenti di verifica sull’utilizzo delle classi di priorità, il sistema rischia di continuare a ingolfarsi, anche con un CUP efficiente.

A tutto questo si aggiunge un aspetto spesso ignorato: il rapporto di cura. Che continuità assistenziale si costruisce se per una prima visita cardiologica ci si ritrova a cento chilometri da casa, e poi magari al controllo si cambia ospedale e medico? La logica dell’incastro algoritmico delle agende rischia di sacrificare la presa in carico, soprattutto nelle cronicità e nelle situazioni fragili. Senza prossimità, continuità e riconoscibilità del professionista, il CUP unico rischia di trasformarsi in un meccanismo di smistamento, non in uno strumento di cura.

Il punto di vista locale

La realtà bresciana entra di prepotenza in queste riflessioni nelle parole di Luigi Peroni, presidente provinciale dell’Ordine dei Tecnici sanitari di radiologia medica (Tsrm) e delle professioni sanitarie, tecniche, della riabilitazione e della prevenzione (Pstrp). Che sottolinea le insidie del nuovo sistema congegnato da Regione. La prima: calarlo dall’alto. “Ogni territorio ha esigenze diverse, e solo i Comuni conoscono davvero i bisogni della popolazione”, ha spiegato. “Senza questo confronto rischiamo di aprire cattedrali nel deserto”. Peroni ha anche evidenziato l’importanza di valorizzare tutte le professioni sanitarie: tecnici di laboratorio, educatori, dietisti e altri professionisti svolgono un ruolo cruciale nella continuità assistenziale, ma troppo spesso restano invisibili nelle scelte politiche e organizzative.

E proprio il personale sanitario rappresenta un altro fronte aperto sul territorio. Perché scarseggia. “L’emergenza non si risolve creando nuove strutture, se manca il personale adeguato”, riflette l’assessore ai Servizi Sociali del Comune di Brescia Marco Fenaroli. Secondo dati ATS Brescia, in diversi comuni della provincia le unità territoriali sono sotto organico di oltre il 30%, con criticità particolarmente acute nelle aree montane e nei quartieri periferici del capoluogo. Fenaroli ha richiamato l’attenzione anche sulla crescente complessità della popolazione: “A Brescia vivono oltre 200.000 cittadini stranieri, spesso con bisogni sanitari e sociali specifici, e le Case di Comunità devono essere attrezzate per intercettare queste esigenze”.

“Si rischia di aprire nuove sedi senza avere chi ci lavora dentro – ha avvertito –. Serve un piano serio per attrarre giovani professionisti, stabilizzare contratti e garantire percorsi di carriera, altrimenti la sanità territoriale resterà solo un sogno sulla carta”. Fenaroli ha portato come esempio concreto la collaborazione tra Comune e ATS per attivare un progetto pilota in alcuni quartieri densamente popolati del capoluogo, caratterizzati da forte presenza di famiglie straniere. In questi quartieri sono stati creati sportelli integrati che uniscono servizi socio-sanitari, medici di base, infermieri e operatori sociali, con supporto alla mediazione linguistica e culturale, accesso facilitato alla diagnostica di base e coordinamento con scuole e centri di aggregazione. L’obiettivo è garantire una presa in carico completa e continuativa dei cittadini, riducendo le disuguaglianze e migliorando l’accesso alle cure per le fasce più vulnerabili. Fenaroli ha sottolineato anche l’importanza di spazi adeguati, tecnologia digitale e coordinamento con i medici di base per garantire efficienza, continuità e accessibilità delle Case di Comunità, evitando strutture scollate dalla realtà locale.

Il ruolo del terzo settore

Non meno cruciale è il rapporto con cooperative e associazioni già attive nella presa in carico socio-sanitaria. Brescia vanta esperienze consolidate, dai servizi domiciliari alla disabilità, che potrebbero integrarsi efficacemente nella rete delle Case di Comunità. Ma, come ha osservato Noja, “manca una ricognizione seria di ciò che già esiste, e così i cittadini non hanno una mappa completa delle opportunità”. Peroni ha aggiunto che integrare queste realtà locali con le strutture pubbliche può permettere una presa in carico più personalizzata, evitando duplicazioni e sprechi.

Il quadro che emerge è quello di un sistema a due velocità: da un lato l’orgoglio per gli ospedali d’eccellenza, dall’altro la difficoltà cronica di organizzare servizi di prossimità coordinati e trasparenti. Per Brescia, con i suoi 1,2 milioni di abitanti e un territorio che va dalle valli al Lago di Garda, il rischio è che le disuguaglianze si allarghino ulteriormente.

Difficile vedere una soluzione all’orizzonte, in questo panorama frammentato. L’unica è procedere un pezzetto alla volta. “Bisogna dimostrare che ci si crede davvero”, ha concluso Noja.