Dal sette ottobre del 2023 non c’è stato un sabato che i movimenti pro Pal non abbiano manifestato: una mobilitazione lunga e costante, che ha fatto crescere una generazione di militanti intorno a una ragione storica che, di padre in figlio, ha creato legami profondi nella sinistra italiana. Insieme al nonno partigiano, tutti abbiamo uno zio che ci ha regalato una kefia: un segno intimo e popolare di come la causa palestinese sia entrata nel tessuto politico e simbolico del Paese, ben oltre l’occasionalità della protesta.
L’immagine che più di altre ha condensato questa stagione è arrivata pochi giorni fa da una conferenza stampa alla Camera dedicata alle mobilitazioni: sullo stesso tavolo sedevano Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, e Vincenzo Miliucci, storico leader dei Cobas, l’uomo che nel 1977 guidò la contestazione di Luciano Lama all’università la Sapienza. Un cortocircuito della memoria politica italiana: il sindacato confederale, che un tempo incarnava la centralità istituzionale del lavoro, si trova oggi accanto a chi ne mise in discussione la legittimità e l’autorità nel pieno degli anni di piombo.
Sono piazze in cui c’è tutto: la sinistra antisemita e l’ebraismo della contestazione, la critica al governo Meloni e quella della sinistra istituzionale, i movimenti sociali e i sindacati, ma anche il Partito democratico, il Movimento Cinque Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra, che sembrano guardare a questo agone con attenzione interessata, immaginandolo come una possibile componente politica e sociale del futuro campo largo. È un magma eterogeneo, un popolo che si coagula intorno a Gaza senza una direzione precisa e che, proprio per questo, diventa osservatorio privilegiato delle fratture e delle possibilità della sinistra italiana.
Non si tratta, come spesso viene liquidato nel dibattito pubblico, di un riflesso ideologico o di un feticcio terzomondista. È piuttosto il prodotto di una stratificazione storica: la Resistenza mancata, la stagione del terrorismo, la politica estera autonoma dell’Italia degli anni Ottanta e, oggi, la radicalizzazione di Israele sotto Netanyahu. Gaza diventa così un palinsesto: un luogo di proiezione simbolica e, al tempo stesso, una ferita viva del presente.
Claudio Pavone, nel definire la Resistenza come guerra civile, osservava che il dopoguerra italiano non conobbe una vera egemonia della parte vincitrice: i partigiani uscirono vincitori militarmente, ma non culturalmente, compressi dalla restaurazione centrista della Guerra fredda. Da questa incompiutezza nacque un lutto mai elaborato, una sconfitta che divenne matrice di nostalgia politica. È in questo spazio che la Palestina si insinua: un popolo che combatte contro un nemico superiore, un’immagine che rievoca quella stagione spezzata. «I fedayn apparvero come i nuovi partigiani», scrive Giovanni De Luna, «un’eco che risuonava potente soprattutto per una generazione che aveva bisogno di rivedere la Resistenza continuare da qualche parte».
Ma il filo rosso non è solo metaforico. Negli anni Settanta, il terrorismo italiano non si limitò a brandire la causa palestinese come bandiera. Le Brigate Rosse e altri gruppi intrecciarono legami operativi con il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina di George Habash: campi di addestramento in Libano, contatti diretti, scambi ideologici. Alessandro Dal Lago ha scritto che «la Palestina costituiva per i gruppi rivoluzionari europei una sorta di laboratorio dell’internazionalismo armato: lì si poteva continuare la guerra partigiana per procura, senza i vincoli di un contesto nazionale ormai pacificato».
Questa dinamica, spesso rimossa o sottaciuta, rivela quanto profonda fosse la saldatura tra la Resistenza mancata italiana e la narrazione palestinese. Il mito della lotta partigiana, non completamente incarnato dall’Italia repubblicana, trovava a Gaza e a Beirut un terreno di reincarnazione, al prezzo di un cortocircuito tra memoria e violenza che ha segnato un’intera stagione.
E oggi? Le piazze pro Gaza non rappresentano blocchi elettorali determinanti. Non spostano voti significativi, non trasformano i loro slogan in programmi di governo. Sono minoranze attive, certo, ma minoranze. Eppure la loro importanza non si misura in per cento: si misura nella capacità di costruire identità, di costringere partiti e media a pronunciarsi, di evocare l’idea stessa di un’ingiustizia irrimediabile. Sono un rito più che una strategia, ma, in un tempo di politica rarefatta, il rito diventa sostanza.
Sono anche piazze istintive, apolitiche, dove la tragedia dei gazawi è slegata dal dato politico e semplificata da un quadro storico di riferimento liquido. I terroristi di Hamas hanno preso il posto, in quell’immaginario collettivo, dei vecchi e nuovi rivoluzionari. Le seconde e terze generazioni di migranti vedono Gaza come la pietra da scagliare contro la povertà che indusse alla migrazione: diventa paradigma e solidarietà della lotta anticoloniale e sociale. In molti strati di questa mobilitazione, l’Islam è già diventato soggetto politico e di rivendicazione.
Questi movimenti, tuttavia, ignorano le infiltrazioni di Hamas al loro interno – come dimostra il caso Hannoun – e applicano una memoria selettiva rispetto agli alleati e ai finanziatori della causa palestinese, come l’Iran, dimenticando la repressione cruenta che colpisce quotidianamente studenti, donne e oppositori a Teheran. Non hanno alcun interesse a costruire un ponte con i movimenti israeliani che, in questi anni, hanno opposto una durissima resistenza al governo di Netanyahu. Continuano invece a dichiarare, spesso esplicitamente, che nel loro paradigma ideale serve una Palestina «libera dal fiume fino al mare», cioè senza Israele.
Come ogni movimento populista, la vergogna è il tasto su cui la propaganda batte più forte: «vergognatevi voi che non dite nulla su Gaza, vergognatevi voi ebrei che non vi dissociate dal vostro governo, vergognatevi voi che non capite che da qui non si torna indietro». A doversi vergognare, però, inspiegabilmente, è solo l’Occidente. Non la Lega Araba, rimasta inerte davanti al massacro dei palestinesi; non la Turchia, che si è mossa solo per dare ospitalità ad Hamas; non l’Egitto, che ha siglato in agosto un accordo con Israele sul gas; non i Paesi del Golfo, che negli anni del conflitto hanno aumentato i loro ricavi negli export con Tel Aviv. A vergognarsi deve essere solo l’Europa.
In questo quadro pesa anche la mutazione di Israele. Durante le intifada precedenti, la durezza della repressione era bilanciata, almeno in apparenza, da un orizzonte negoziale: Rabin e Peres incarnavano l’illusione di Oslo; perfino Sharon agiva dentro un paradigma di «pace impossibile ma discussa». L’attuale governo di Netanyahu, stretto nell’alleanza con l’estrema destra religiosa, rompe ogni ambiguità: non si limita a reprimere, ma nega la possibilità stessa di uno Stato palestinese. È un salto qualitativo che radicalizza anche la percezione in Italia: le piazze leggono in Gaza la conferma che il paradigma non è più due Stati in conflitto, ma un popolo sotto assedio.
Questa identificazione, tuttavia, ha conosciuto anche derive più oscure. Il confine tra solidarietà e antisemitismo, nella storia della sinistra italiana, non è stato sempre nitido. L’appoggio incondizionato alla causa palestinese si è talvolta tradotto in un’ostilità generalizzata verso Israele, scivolando nella demonizzazione indistinta degli ebrei. Giorgio Napolitano, in più occasioni, ammonì la sinistra che «l’antisionismo non deve mai diventare l’alibi dell’antisemitismo», liquidando con fermezza le ambiguità di quella tradizione. È una frattura che rimane viva e che costituisce, paradossalmente, la migliore assicurazione per la destra israeliana di Benjamin Netanyahu e Bezalel Smotrich: un nemico ideologico esterno che rafforza, per contrapposizione, la loro egemonia politica interna.
Eppure, proprio perché Gaza è diventata uno specchio di memorie e contraddizioni, l’Italia ha conosciuto negli ultimi decenni anche forme nuove e simboliche di solidarietà. Le carovane per Sabra e Chatila negli anni Ottanta, i convogli umanitari della società civile, fino alle navi della libertà che hanno tentato di forzare l’assedio marittimo imposto da Israele.
Sono in corso in queste ore le operazioni di rimpatrio dei membri della Sumud Flotilla, un’operazione tattica e strategica di propaganda e rivendicazione molto efficace, il cui primo obiettivo era portare aiuti umanitari alla popolazione falcidiata da una carestia grave, dovuta ai blocchi degli aiuti decretati dal governo Netanyahu e dal conflitto in corso. Ma proprio questo obiettivo, nel corso dei giorni, è diventato più sottile: la natura delle imbarcazioni e la difficoltà marittima della missione rendevano infatti impossibile trasportare tutto ciò che meritoriamente era stato raccolto. Il vero target è divenuto quello di rompere l’assedio di Gaza e il blocco navale israeliano. Un’azione legittima e simbolicamente potente, ma che nella prassi si scontrava con le intenzioni ben chiare del governo israeliano.
Rispetto alle grandi mobilitazioni del passato, oggi la causa palestinese vive e si amplifica nei social network – soprattutto su TikTok e Instagram – attraverso video e parole d’ordine globali come Free Palestine o Stop the genocide. È una mobilitazione planetaria che trova nel digitale il suo acceleratore e che, per la sinistra italiana, segna la trasformazione definitiva dell’internazionalismo in linguaggio emotivo e immediato.
Tuttavia, la persistenza di questa identificazione segnala un paradosso. La mobilitazione per l’Ucraina, che pure avrebbe dovuto incarnare l’opposizione a un’aggressione militare e la solidarietà a un popolo invaso, non ha mai prodotto nelle piazze italiane lo stesso carico simbolico e numerico che oggi vediamo per Gaza. È su questa doppia morale – l’indignazione selettiva che distingue tra conflitti degni e conflitti ignorati – che si innesta la natura identitaria di queste mobilitazioni. La Palestina non è solo causa internazionale: è l’ultima arena in cui la sinistra italiana riesce a riconoscersi, a proiettare se stessa in un mondo che altrove non offre più specchi.
L’internazionalismo della sinistra italiana, che un tempo guardava al Vietnam, al Cile, all’Angola, al Nicaragua, si è via via ritratto fino a fermarsi a Gaza. Tutte le altre geografie dell’impegno sono evaporate con la fine della Guerra fredda e con la globalizzazione: nessuna nuova causa ha preso il posto di quelle battaglie lontane che scandivano la vita delle piazze. La Palestina è rimasta l’ultimo orizzonte compatibile con l’antica grammatica dell’oppressione e della resistenza.
Gaza è dunque più di una tragedia internazionale: è il monumento a un internazionalismo interrotto, il luogo in cui la sinistra italiana riconosce la propria Resistenza mancata e insieme l’ultimo campo in cui riesce ancora a parlare il linguaggio della solidarietà universale. Una lingua che altrove si è spenta e che, proprio per questo, si concentra tutta lì, nel dramma infinito di Gaza.
Di queste settimane rimarranno tre cose: la nuova leadership politica di Francesca Albanese – figura che, agli occhi di molti, ci assolve da tutti i peccati – il regolamento di conti interno ai partiti e l’illusione che al dramma della Palestina serva ancora una volta la proiezione di una sinistra globale che, incapace di ridefinire il proprio ruolo nel mondo, sta perdendo ancora una volta la propria sfida con il futuro.
L’assenza di una proposta politica capace di dare forma a queste piazze, la loro natura di mobilitazione on demand, resta la migliore assicurazione che tutto rimanga esattamente così com’è: che il destino dei popoli continui a essere deciso da altri tavoli, in altre stanze, da altre contese.