Il passo da uno Stato in crisi alla sua fine può essere breve. Non prendo con leggerezza il processo che potrebbe portare alla fine di uno Stato di cui sono cittadino e in cui vivono milioni di persone. Gli Stati in realtà non finiscono come se niente fosse, e da questo punto di vista parlare di «fine» potrebbe essere esagerato; nella maggior parte dei casi gli Stati cambiano e a volte lo fanno in modo drastico. È di questo che si discute qui. Abbiamo esempi di Stati che non solo si sono disintegrati o sono collassati, ma sono proprio scomparsi: per esempio, la Iugoslavia e il Vietnam del Sud, per citare i due casi più noti della storia recente.
La fine di uno Stato può anche significare la fine di un regime, e qui gli esempi abbondano: Sudafrica, Cile, Argentina, Iraq e così via. Dunque, un potenziale crollo di Israele potrebbe essere come la fine del Vietnam del Sud, con la cancellazione totale di uno Stato, oppure ricalcare la vicenda del Sudafrica, con la caduta di un particolare regime ideologico e la sua sostituzione con un altro.
Sono del parere che nel caso di Israele si avranno elementi di entrambi gli scenari prima che molti di noi se ne avvedano o possano prepararsi per farvi fronte. Perché sollevare il problema adesso? Non sono l’unico a essersi posto il problema. Il periodo movimentato avviato con l’attacco di Hamas a Israele, il 7 ottobre 2023, ha sollevato seri dubbi sul futuro dello Stato ebraico.
Alcuni dibattono sulla scorta della grande animosità che nutrono verso questo Stato e ciò che esso rappresenta; altri discutono preoccupati per il futuro di Israele. Ma nel 2023 si è fatta strada l’idea, tra gli amici tanto quanto tra i nemici, che l’esistenza di Israele non sia mai apparsa così precaria. I segnali di allarme precedono l’attacco devastante di Hamas del 7 ottobre, come dimostrato dall’implosione sociale all’interno della società israeliana emersa con l’elezione nel novembre 2022 del governo più di destra nella storia del paese. Molti si domandano se Israele sopravvivrà in futuro come uno Stato ebraico e tra gli esperti sono cominciate a circolare alcune ipotesi. Quando alcuni palestinesi e coloro che ne sostengono la lotta rispondono negativamente a questa domanda, è con la grande speranza che Israele finirà per davvero e sarà rimpiazzato da una Palestina libera. Quando invece sono gli israeliani a ipotizzare la fine del loro Stato, lo considerano uno scenario da incubo per sé e per gli ebrei di tutto il mondo.
Queste due distinte risposte emotive a uno scenario altamente probabile tendono a ignorare le complessità e le complicazioni che ci attendono prima che si realizzi. Quando si auspica la fine dello Stato o se ne teme l’idea, bisognerebbe avere ben presente, alla luce dei precedenti storici, che questi processi sono sempre caratterizzati da una violenza estrema. E se così fosse, in Palestina sarebbero i palestinesi a pagare il prezzo più alto di un tale evento. Ma ciò non è inevitabile. Se ci si addentra in un’analisi più accurata di una simile traiettoria, emerge anche la possibilità di percorsi non-violenti o meno violenti verso un futuro migliore per tutti coloro che oggi vivono in Israele e in Palestina e per coloro che sono stati espulsi da questi territori a partire dal 1948.
Sebbene io sostenga la visione di un unico Stato democratico per Israele e Palestina, il mio non vuole essere un appello perché si arrivi alla fine di Israele. Da storico, evidenzio che la fine di Israele sembra essere già cominciata. E la morte di uno Stato o il collasso di un’entità geopolitica creano un vuoto. Alla discussione sui motivi della fine dello Stato o sulle circostanze in cui avverrà farà dunque seguito un’analisi di chi e che cosa potrebbero e dovrebbero riempire il vuoto inevitabile. E, quanto prima il vuoto sarà riempito, tanto meno violento sarà il processo di disintegrazione, se la mia valutazione è corretta.
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Come molti dei miei amici palestinesi, anch’io mi riferisco alla fine di Israele come a un processo di decolonizzazione. In qualità di storico so bene dei casi del passato in cui la decolonizzazione è avvenuta attraverso trasformazioni violente e brutali. La storia, la migliore maestra che abbiamo, ci fornisce innumerevoli esempi in cui le lotte per la decolonizzazione e la liberazione sono sfociate nella creazione di nuovi sistemi di ingiustizia, per usare un eufemismo.
Realisticamente, sarebbe ingenuo immaginare una fine del progetto sionista o dello Stato di Israele come una felice e rapida trasformazione da un luogo di occupazione, oppressione e, da ultimo, di genocidio in un paese dove le libertà sono garantite a tutti e dove viene ristabilita la giustizia per chi in passato abbia subito dei torti. Ma è importante aspirare e adoperarsi per giungere a una transizione che sia la più pacifica possibile, si dimostri costruttiva e prefiguri un futuro migliore per quante più persone possibile. Una transizione che vada innanzitutto a beneficio delle vittime dell’oppressione e degli spargimenti di sangue, ma anche di coloro che temono che perdere la propria posizione di privilegio e superiorità li trasformerà in vittime, da agiati oppressori quali sono attualmente.
Il progetto sionista si sta sbriciolando e con esso lo Stato di Israele come uno Stato ebraico. E questa idea non è una pia illusione né lo scenario a cui si potrebbe arrivare nel peggiore dei casi. È qualcosa di inevitabile, non perché io stia adottando una prospettiva determinista sulla storia o perché possieda una sfera di cristallo, ma perché è una situazione già in essere, anche se non se ne parla. Le fondamenta dell’Israele sionista hanno crepe così grosse che nessuna opera di manutenzione potrà ripararle. Non si tratta di stabilire se l’edificio crollerà, ma quando ciò avverrà.
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Il collasso di Israele non è una posizione politica, qualcosa che si possa accettare oppure rifiutare. È un processo oggettivo che è già cominciato. La sua probabilità dovrebbe essere discussa come argomento principale nella conversazione a lungo termine sul futuro di Israele e della Palestina, anziché concentrarsi – come facciamo noi – sul futuro dei palestinesi. La sorte dei palestinesi nei prossimi anni è comprensibilmente la nostra più grande preoccupazione, ma nel lungo periodo sarà la sorte degli ebrei nella Palestina storica la questione da risolvere. Il tentativo secolare dell’Occidente, Regno Unito in testa, di imporre uno Stato ebraico su un paese arabo sembra essere arrivato alla fine. È riuscito a creare una società organica di milioni di colonizzatori, molti dei quali ormai di seconda e terza generazione, ma la cui sorte dipende ancora, come quando sono arrivati, dalla capacità di imporre con la forza violenta la loro volontà su milioni di palestinesi indigeni che non hanno mai rinunciato al proprio diritto all’autodeterminazione e alla libertà sulla propria terra natia. La loro unica speranza per il futuro sarà data da una disponibilità a vivere da cittadini con pari diritti in una Palestina liberata e decolonizzata. Sono convinto che molti lo faranno.
Pappé – autore di libri imprescindibili sulla questione palestinese e la storia di Israele – ha ricevuto il fine settimana scorso il premio Stefano Chiarini. Giunto alla sua sedicesima edizione, il premio dedicato al giornalista de il manifesto è promosso dall’associazione «Per non dimenticare Odv».