Mustafa Barghouti è il presidente del Medical Relief, storica ong palestinese che da decenni assicura assistenza sanitaria in Cisgiordania e a Gaza. Ma è anche un leader politico di spicco e una delle voci più autorevoli della società civile palestinese. Lo abbiamo incontrato nel suo ufficio a Ramallah.
Due anni dopo il 7 ottobre e l’inizio dell’offensiva israeliana contro Gaza è arrivato il Piano Trump, celebrato un po’ da tutti, inclusi i paesi arabi, come la soluzione che porterà alla fine delle sofferenze per due milioni di civili a Gaza e realizzerà le aspirazioni dei palestinesi. Cosa ne pensa?
Ho accolto con favore la risposta positiva di Hamas (al Piano Trump) volta a realizzare uno scambio di prigionieri e la formazione di un comitato amministrativo palestinese indipendente a Gaza. Un sì che ha l’obiettivo immediato di fermare la guerra di sterminio e il piano di sfollamento e pulizia etnica della popolazione di Gaza, garantendo il completo ritiro dell’esercito di occupazione. Allo stesso tempo, è necessario tenere presente che Benyamin Netanyahu è riuscito a fare pressioni su Trump affinché modificasse radicalmente il suo piano, peraltro concordato in precedenza con i paesi arabi e musulmani. E alla fine Netanyahu ha ottenuto quasi tutto ciò che sperava, nonostante il crescente isolamento internazionale in cui si trova. Il Piano Trump è molto vago in ciò che offre ai palestinesi e, pertanto, va analizzato e giudicato con estrema attenzione. Alla luce di ciò, ho sollecitato tutte le forze politiche palestinesi a concordare una posizione unitaria volta a garantire i diritti del nostro popolo all’autodeterminazione, alla libertà e all’indipendenza. Occorre impedire il progetto che vuole imporre una amministrazione straniera sulla Striscia di Gaza o a separarla dalla Cisgiordania. E dobbiamo stare in guardia contro i trucchi di Netanyahu che tenterà, come in passato, di impedire la fine della guerra di sterminio. Non dobbiamo mai smettere di rendere omaggio al popolo di Gaza, che resiste coraggiosamente alla pulizia etnica, al genocidio e alla fame. La sua eroica fermezza ha innescato una rivoluzione globale di solidarietà con la Palestina che deve essere intensificata ed estesa fino alla fine dell’occupazione e del sistema coloniale di insediamento.
A proposito della solidarietà internazionale, il mese scorso c’è stata un’ondata di riconoscimenti dello Stato di Palestina da parte di leader occidentali. Vi aspettate di più?
Certo, molto di più. Indubbiamente il riconoscimento ufficiale della Palestina da parte di tutti questi paesi è importante, perché ribadisce il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e respinge le politiche e le leggi israeliane che negano la nostra indipendenza e libertà in terra di Palestina. Però non è sufficiente, perché non fermerà Israele da ciò che sta facendo, non solo a Gaza. Mi riferisco alla colonizzazione e agli attacchi dei coloni in Cisgiordania. Il terrore dei coloni è aumentato in maniera drammatica dopo il 7 ottobre. Hanno già cacciato 60 comunità palestinesi dalle loro case e confiscato oltre il 16% delle terre della Cisgiordania, oltre a dare vita a numerosi avamposti coloniali. La mia preoccupazione è che la regola del terrore per cacciare via la nostra gente possa intensificarsi. Per questo dico che il riconoscimento della Palestina non è sufficiente: deve essere accompagnato da sanzioni.
Tra i paesi europei che non hanno ancora riconosciuto lo Stato di Palestina c’è l’Italia.
Infatti, e ne sono sorpreso. La Francia, il Belgio, il Portogallo, perfino la Gran Bretagna, l’Australia, la Nuova Zelanda e il Canada, paesi che sono sempre stati vicini a Israele, ora riconoscono lo Stato di Palestina. Non riesco a spiegarmi la posizione dell’Italia. Il popolo italiano vuole un passo deciso verso il riconoscimento: lo dicono a gran voce le manifestazioni enormi per Gaza e la Palestina che si sono svolte in questi ultimi giorni a Roma, Napoli e in tante altre città italiane. È davvero incomprensibile che il governo italiano abbia scelto di non far parte della famiglia europea che ha deciso di riconoscere la Palestina.
La solidarietà di tanti popoli, mai così ampia come in questi mesi, risulterà decisiva per il raggiungimento delle vostre aspirazioni?
Ne sono convinto. Già più di vent’anni fa sostenevo che la situazione in Palestina sarebbe diventata simile a quella del sistema di apartheid in Sudafrica. E, come per quella causa la mobilitazione internazionale fu fondamentale, altrettanto avverrà con i palestinesi. Le persone comuni hanno una grande forza: con la loro mobilitazione possono cambiare i parlamenti, e i parlamenti poi cambiano i governi. Gli ultimi a prendere questa strada saranno gli Stati uniti, i principali sostenitori delle politiche e delle azioni di Israele. Ma stanno cominciando a cambiare anche loro. Lo vediamo dai sondaggi: la maggioranza dei Democratici afferma che ciò che accade a Gaza è un genocidio e il 75% chiede un embargo militare a Israele. Anche il 37% dei Repubblicani chiede di non mandare più armi. Lo stesso processo che ha portato diversi governi europei a cambiare almeno in parte la loro linea ora sta avvenendo negli Stati uniti. Quella di Trump è un’amministrazione particolarmente difficile, a causa anche dell’alleanza evangelica con l’establishment israeliano e per le tendenze fasciste condivise. Ma alla fine dovranno cambiare.
Cosa dovranno invece fare i palestinesi per dare sostegno alla loro causa nella loro terra?
Ciò che ci manca più di ogni altra cosa è una leadership palestinese unificata, come avevamo nella prima Intifada. Ed è una grande mancanza: la frattura interna è il nostro punto più debole. Ma penso che la comunità palestinese si stia riorganizzando. E sta tornando agli stessi tre principi della prima Intifada: autorganizzazione, autosufficienza e sfida alle azioni israeliane. Se ne vedono ottimi esempi a Sinjl (a nord-est di Ramallah, ndr), dove la popolazione è capace di muoversi come una squadra per difendere le proprie terre. Lo si vede anche a Maghayyer. La gente si mobilita da sola, senza aspettare nessun altro, assumendosi la propria responsabilità. Spero che questo vada avanti. Ma dobbiamo mai non smettere di chiedere anche una leadership politica unificata. Nell’incontro a Pechino delle fazioni palestinesi avevamo raggiunto un ottimo accordo in quella direzione e dobbiamo applicarlo. L’altro obiettivo centrale per i palestinesi è restare in Palestina e impedire la pulizia etnica. Se non fosse stato per la resilienza, la resistenza e la fermezza dei palestinesi sul terreno, non avremmo visto tutti questi paesi del mondo riconoscere la Palestina. Dunque, la cosa più importante è restare saldi e unificare i nostri sforzi e spingere il mondo a sanzionare concretamente Israele. Se restiamo nella nostra terra, gli israeliani saranno costretti ad accettare o la soluzione dei due Stati o quella di un unico Stato.