COSA SONO I MERCATI “DI FRONTIERA”?

Nella realtà non esiste una definizione univoca di mercato “di frontiera”, ma gli operatori si affidano in genere alle classificazioni proposte da indici come MSCI, FTSE Russell e S&P. Quest’ultimi inseriscono nei mercati “di frontiera” Paesi molto eterogenei tra loro, accomunati da economie ancora immature, Borse locali poco liquide e standard normativi inferiori rispetto a quelli dei mercati emergenti. Per dare un esempio, Vietnam, Kenya, Romania o Bangladesh possono essere trovarsi tra i mercati “di frontiera”: già solo da questi nomi ci si può rendere conto come questo insieme sia molto variegato – e all’apparenza potrebbe anche sembrare che non ci sia un legame tra questi Paesi.

Capita anche alcuni di questi Paesi si possano ritrovare, a seconda degli indici, tra gli emergenti. Tuttavia, ci sono delle differenze. Rispetto a questi ultimi, i mercati “di frontiera” si distinguono per dimensioni più contenute, minore capitalizzazione, maggiore illiquidità e un contesto istituzionale e regolamentare più fragile. Per dare un ordine di grandezza, la capitalizzazione complessiva dei mercati azionari “di frontiera” rappresenta appena lo 0,4% del valore globale, contro oltre il 10% dei mercati emergenti e più del 50% del PIL mondiale prodotto da questi ultimi.

LE CARATTERISTICHE DEI MERCATI “DI FRONTIERA”

I mercati “di frontiera” spesso mostrano tassi di crescita superiori alla media globale, sostenuti da una demografia giovane, urbanizzazione in corso e progressiva apertura al commercio internazionale. È il caso del Vietnam, del Bangladesh o di alcune economie africane come la Costa d’Avorio, che negli ultimi anni hanno registrato tassi di crescita del PIL superiori al 5%. Tuttavia, questo potenziale si accompagna a elementi di vulnerabilità: inflazione spesso a doppia cifra, deficit pubblici elevati, politiche monetarie poco efficaci e, soprattutto, instabilità politica diffusa. Colpi di Stato, proteste sociali e cambi normativi imprevedibili sono tutt’altro che rari. Non stupisce quindi che molti Paesi “di frontiera” abbiano un rating sovrano inferiore alla categoria “investment grade”, con livelli di affidabilità creditizia da monitorare con estrema cautela.

INVESTIRE NEI MERCATI “DI FRONTIERA”?

Investire nei mercati “di frontiera” comporta una serie di rischi strutturali difficilmente ignorabili. Il primo è il rischio di cambio: molte valute locali sono soggette a forti deprezzamenti e il debito estero è spesso denominato in dollari, il che espone i governi a crisi di bilancia dei pagamenti nei periodi di stretta monetaria globale. Inoltre, la liquidità dei mercati azionari è estremamente bassa: pochi titoli scambiati, volumi esigui e spread denaro-lettera elevati rendono difficili gli ingressi e soprattutto le uscite. A ciò si aggiungono rischi normativi e giuridici: gli investitori possono trovarsi esposti a cambi repentini delle regole, carenze di trasparenza nei bilanci e una protezione legale limitata. Tutti questi rischi comportano rendimenti obbligazionari più elevati, a cui però si accompagnano probabilità di default elevate e non solo – come visto qualche riga sopra.

Considerando che prodotti che investono sui mercati emergenti puntano anche su molti dei Paesi annoverati tra quelli “di frontiera” e che i rendimenti offerti dalle obbligazioni dei mercati “di frontiera” non sono tali da giustificare di posizionarsi su una nicchia di mercato piuttosto che su un mercato più maturo e sviluppato come gli Emergenti, il consiglio è di non investire sui mercati “di frontiera”.