di
Paolo Mereghetti

«Tre ciotole», dall’ultimo romanzo di Michela Murgia, nonostante la tragicità del tema trattato, è attraversato da un contagioso soffio di vitalità

Non ho letto il libro di Michela Murgia Tre ciotole, all’origine dell’omonimo film di Isabel Coixet, ma dopo averlo visto mi è venuta voglia di leggerlo. E non per verificare la fedeltà o meno al testo letterario, ma perché nonostante la tragicità del tema trattato, il film è attraversato da un contagioso soffio di vitalità. E vorrei capire quanto è merito della regista e quanto era già sulle pagine della Murgia. Lo ripeto: non per fare una qualche divisione dei «meriti» ma per chiarirmi come una regista catalana abbia lavorato con attori e ambienti così totalmente italiani.

Perché il primo merito del film è proprio la prova dei suoi interpreti, e soprattutto quella di Alba Rohrwacher, mai così convincente da molti film a questa parte (con l’eccezione di Le occasioni dell’amore, guarda caso anche qui diretta da un registra straniero).



















































Non è facile interpretare Marta, che prima viene lasciata dal compagno e poi scopre che i dolori intestinali non sono psicosomatici ma causati da un tumore. E a uno stadio incurabile. Ma Alba lo fa con una grazia e una leggerezza che non sono mai né superficialità né affettazione. Proprio come dovrebbe fare una grande attrice.

All’inizio del film la vediamo subire le recriminazioni del compagno Antonio (Elio Germano), stanco delle sue ritrosie e dei suoi malumori e a cui risponde con talmente scarsa convinzione da spingere l’uomo a lasciarla. Per dare inizio così all’inevitabile percorso di elaborazione della separazione, durante il quale deve fare i conti con la sorella Elisa (Silvia D’Amico), tanto impicciona quanto affettuosa, e con il timido e innamorato collega — lei insegna ginnastica, lui filosofia — Agostini (Francesco Carril).

Mentre Antonio rientra tra le quinte del film, facendo ogni tanto capolino con la sua attività di chef di una trattoria (più che altro per metterci al corrente che anche lui soffre per la separazione), il film segue Marta prima alle prese con la solitudine, che cerca di elaborare con l’aiuto del cartonato di un cantante K-pop a cui fa sapere i suoi pensieri, e poi con la scoperta della malattia e i suoi tentativi di curarla.

Un confronto, quest’ultimo, capace di innescare una reazione positiva grazie anche alla fiducia che sente per la dottoressa che la segue (Sarita Choudhury), fatta di cibi mangiati meno casualmente (le bastava aprire il frigorifero e addentare quello che trovava) e poi di una vita meno sfuggente e irsuta.

Ed è qui che si vede la mano di Coixet (chi si ricorda di Guida per la felicità o La casa dei libri?), capace di sottolineare la sensibilità femminile senza dover aggiungere qualche proclama, attenta alle sfumature più che alle azioni esemplari e capace di procedere per accumulo invece che per concatenazioni.

Il percorso attraverso la malattia diventa giorno dopo giorno un percorso verso la riscoperta della vita e del diritto a viverla con intensità e (fin dove è possibile) con gioia. Soprattutto senza quell’avidità che potrebbe spingere a cercare di afferrare tutto e a non soddisfarsi di niente.

No, la sceneggiatura (della regista e di Enrico Audenino, ma immagino con un fondamentale apporto murgesco, da cui la voglia di leggere anche il libro) e la regia danno l’impressione di «accontentarsi» del piccolo e del poco che trovano, si tratti di un buon cibo con cui riempire le tre ciotole del titolo o di un sorriso regalato al collega filosofo.

Ed è qui che spicca la prova della Rohrwacher, capace di comunicare quell’entusiasmo ritrovato proprio mentre il suo corpo fa i conti con il suo contrario, e farlo con una naturalezza e una immediatezza che non sono così scontate e facili da mostrare.

Senza niente togliere agli altri interpreti, anche loro giusti e bravi, è proprio lei, in scena praticamente dall’inizio alla fine del film, a rendere verosimile e credibile un cammino verso la fine dell’esistenza che diventa il suo esatto contrario, usando al meglio un fisico e un’espressione che a volte sembrano segnate dalla sconfitta e che invece Coixet riesce a illuminare con la forza della vita.

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7 ottobre 2025 ( modifica il 7 ottobre 2025 | 20:44)